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sabato 24 dicembre 2011

La furia di Novella


È un vero mistero come il Demonio trovi tanti adepti in Terra, quando è scritto chiaramente nei Vangeli e nell'Apocalisse che il loro presunto Idolo malefico è destinato alla sconfitta da parte del Giusto, ed essi non potranno che ardere per sempre nella loro dannazione.
Non per questo, però, noi uomini di Chiesa dobbiamo essere intransigenti con loro: “punire il peccato, salvare il peccatore” è il nostro credo. Per questo, prima di arderli vivi in espiazione delle loro colpe, pretendiamo il pentimento (ed è ben piccola cosa il rogo di un momento di fronte a quello eterno)(accidenti come sei poetico, ndr)
Eppure, ci sono scellerati che ci chiamano “ottusi”. Uomini che a volte camminano con noi. Ci chiamano ottusi, invece di ringraziarci. “Ottusi”, quando essi stessi si sono allontanati dal luogo d'indagine, senza nessun costrutto se non quello di farsi accusare di tentato assassinio (e poi, ovviamente, tocca a noi “ottusi” salvarli, e se non sacrifichiamo a questi scellerati i nostri principi la prendono a male); senza nessun costrutto, se non quello di essere quasi uccisi senza estrema unzione, se noi “ottusi”, sempre noi, non li avessimo fatti seguire da un valoroso inviato (chi Joaquin? Pure valoroso è diventato?, ndr), conoscendo l'inettitudine di codesti pretenziosi, che, accecati dall'orgoglio, non riescono a distinguere il saggio dallo stolto, il retto dall'errato.
Ma sono certo che, presto o tardi, Adolf si getterà nell'ennesima follia, e non troverà la mano salda di un “ottuso” a salvarlo, così come siamo soliti. La mia speranza è che, prima, si sia pentito di cuore. Ma, se è vero che “quos deus perdere vult dementat prius” (coloro che Dio vuole perdere, prima li fa impazzire NdA), Adolf sembra già sulla buona strada...di certo è già stato accecato dall'individualismo più sfrenato. Oppure, ci sta tradendo.
La mia preoccupazione è che, presto, le sue azioni scellerate e incontrollate ci possano mettere in guai tali da risultare irrisolvibili.

Salvato, comunque, per l'ennesima volta Adolf dalla sua scelleratezza, ci siamo avviati verso Grinzane Cavour, il luogo di provenienza di troppe bottiglie di vino trovate nelle case dei Decussi e di coloro che erano collusi con loro.
Fummo accolti con una certa gentilezza dal prete del luogo, palesemente inetto, che probabilmente credette alla nostra storia, secondo la quale eravamo di sosta nel viaggio verso la Liguria, e ci portò subito dal Barone, nel castello: costui era un vero e proprio cafone, ma non privo di una certa ferina scaltrezza, perché, pur ordinando di accoglierci (come avrebbe potuto esimersi, davanti all'autorevolezza di un Inquisitore e di un Templare?), si attivò subito per occultare le sue blasfeme attività, come presto avremmo scoperto.
Mentre stavamo cenando, più che egregiamente, con il prete, infatti, il mio olfatto sviluppato percepì un odore peculiare, un fumo greve. Guardando dalla finestra, vidi che un comignolo del castello fumava più nero degli altri, pur nella penombra. Non appena il nostro ospite si assentò un attimo, lo comunicai ai miei compagni, e decidemmo di compiere una discreta ispezione, con la scusa di un'innocente passeggiata. Invece, individuata una finestra non sorvegliata, scivolammo dentro il castello, e presto, procedendo in direzione del caminetto che fumava, arrivammo alle stanze del Barone. Adolf fu il primo a vederlo: era solo e stava bruciando dei documenti. Ovviamente, non pensò all'ipotesi di agire di squadra per catturarlo: preferì fare irruzione nella stanza e, quando il Barone provò a fuggire, non trovò di meglio che sparargli. Adolf sostenne di avergli voluto colpire le gambe per impedirgli la fuga, ma ciò risulta poco credibile, dato che usò il fucile a canne mozze, e difatti uccise il nobiluomo, che cadde dalla finestra. Io mi dispiacqui per l'uomo, perché non ebbe tempo di pentirsi. Ma, forse, avrebbe confessato qualcosa che Adolf non voleva che sapessimo...
Nella stanza, comunque, non trovammo molto: il Barone aveva fatto in tempo ad ardere una gran mole di documenti, salvammo solo alcune lettere, già bruciacchiate, che ci riguardavano: il Re Nero ordinava di ucciderci, era interessato a Joaquin, e intimava di punire la parte deviata della setta liberando la Creatura (evidentemente, la Scannatrice). C'era anche una lettera a nostro favore, nella quale si diceva di rimandare la nostra condanna; mentre le altre erano scritte a macchina, però, questa era vergata da una mano femminile.
Qualcuno, dunque, ci proteggeva nell'ombra? Forse la sorella di Joaquin, che da sempre egli va cercando?
Non c'era tempo per analisi e disquisizioni: da fuori provenivano urla disperate, il Barone si era già risvegliato come Ferox, molti combattenti faticavano a tenergli testa. Scendemmo verso il piano terra, con l'intenzione di aiutare i vivi, ma notammo una scala che portava ai sotterranei: il nostro dovere ci imponeva di non trascurare quella pista, ora che la confusione ce la apriva. Come avremmo potuto immaginare data la vocazione enologica della zona, la cantina era colma di botti. Non tutte, però, servivano a far fermentare il vino: sospettosi, bussammo su tutte, fino a trovarne una vuota. La aprimmo, con un meccanismo segreto, e presto ci ritrovammo in una stanzetta ottagonale. Nel centro, in un sarcofago rituale, giaceva la Scannatrice, inattiva. Subito io e Fratello Celestino ci gettammo su di lei e la riducemmo a brandelli senza che lei si muovesse: senza un apposito rito che la risvegli, una Scannatrice è solo un inerme fantoccio.
Poco lontano trovammo un'altra stanza rituale, ma purtroppo i libri magici erano stati asportati. Ne avevamo abbastanza per denunciare la setta: risalimmo, scassinammo la porta della stalla nella quale era tenuto (lo avevamo immaginato) il carro funebre, e, presi alcuni cavalli, ci dirigemmo verso Torino, lontano dalle guardie che, fatto a pezzi il Barone, ci cercavano.
Tornammo poche ore dopo alla testa di un gruppo di Templari, che mi permisero di installare, come mio sacro diritto, un tribunale inquisitorio per giudicare gli eretici.
Dodici soldati e servitori del Barone risultarono, ad ogni evidenza, colpevoli di aver seguito l'eresia del loro signore per interesse. Dopo una breve tortura lo confessarono e dissero di essersi pentiti. Spero per loro che fossero sinceri. Li condannai al rogo.
Il prete inetto, che confessò (con poche sberle di Fratello Celestino) di aver appoggiato il Barone per interesse, in cambio della sua nomina a prete, ma negò di sapere della setta, ebbe una pena più lieve: trenta frustate. Sono al limite della sopportazione, per un uomo della sua costituzione: sarà il Signore a giudicare se egli dovrà sopravvivere.
Ai contadini, mi limitai a prescrivere un mese di penitenza e preghiera.
I Templari mi chiesero di processare anche Adolf, che in mezza giornata li aveva portati a completa esasperazione, ed in effetti si poteva condannare come indemoniato. Ancora una volta deve la sua vita a un ottuso, in quanto gli offrii la possibilità di votare la sua vita alla Chiesa, come converso. Forse, oltre al corpo gli salverò anche l'anima.

Quando ci allontanammo, dodici roghi stavano ancora arrossando il cielo con gli ultimi bagliori.

lunedì 19 dicembre 2011

L'intrepido Fra Novella


Esiste il concetto di male maggiore e male minore, oppure il bene e il male si oppongono? Se incontriamo sulla nostra strada un male che appare minore, è legittimo trascurarlo perché ne vogliamo punire uno che ci pare più grave? Molti risponderebbero senza dubbio, ma è proprio con la teoria del male più grande che il Demonio trascina molte anime nel peccato, e se noi Inquisitori stessi ci lasciamo deviare dal nostro incarico di tutelare la moralità degli uomini e la purezza della loro osservanza ai precetti della Santa Romana Chiesa Cattolica Apostolica Romana, non forniremo l'apparente legittimazione a tali devianze?
Ma, d'altro canto, il male ed il peccato sono così diffusi che punirli tutti è superiore alle forze umane, e ve ne sono alcuni che possono portare ruine tremende. Dunque, l'uomo saggio potrà legittimamente fermarsi a punire altre brutture meno gravide di conseguenze, a rischio di trascurare i peccatori peggiori?
Il problema non è puramente accademico, e fu anzi sul punto di bloccarci, anche con il fascino stesso di siffatte discussioni dottrinali.

Dopo aver visitato i due anziani insegnanti e il loro disgraziato figlio senza avere trovato traccia della stamperia, prendemmo parte alla vita di parrocchia, mentre pensavamo a come proseguire la nostra ricerca di quanto rimaneva della stamperia. Il clima era piacevole: la popolazione era straordinariamente colta, come livello medio, e sembrava genuinamente religiosa. Io e Fratello Celestino fummo addirittura, nel corso di una cena conviviale, attorniati da torme di infanti che sognavano chi di entrare nei Templari, chi di farsi Inquisitore. Solo Adolf sembrava non gradire la compagnia, e decise di uscire dalla stanza nella quale eravamo ospitati. Non fidandomi di lui, ed essendo trattenuto da Don Beppe, chiesi a Joaquin di seguirlo, ma non avrei pensato che la sua uscita ci avrebbe causato tanti problemi.
Poco dopo, però, udimmo un'esplosione poco lontana. Tutti ci precipitammo per strada, e fummo subito guidati dalle luci vivide di un incendio che stava divorando un edificio non lontano. C'era un leggero odore di benzina: l'incendio era doloso.
Già molti paesani si stavano adoperando per domare le fiamme, e noi davamo una mano, sinché dal rogo uscì un uomo ferito: era Gian Carlo, l'insegnante con il quale avevamo parlato nel pomeriggio. Egli si teneva il ventre, e ci puntò contro il dito: «E' stato l'uomo che era con lui a ferirmi! A dare a fuoco tutto!»
Parlava di Adolf. Molti ci guardarono storto, e se non ci linciarono fu solo per il vestito che portavamo, e per l'emergenza del momento. In quel momento, l'edificio crollò: dentro, erano conservate le macchine da stampa, oramai inservibili per il rogo.

Pochi minuti dopo io, Fratello Celestino e Don Beppe ci trovavamo in una stanza della Canonica, temporaneamente al sicuro dalla folla.
«Tu!» lo accusavo «tu infanghi l'abito sacro che porti! Hai mentito ad un Inquisitore nei suoi legittimi sospetti! Hai occultato un'attività di stampa che produceva libri all'Indice, da Pinocchio ai volumi blasfemi di sette!»
Il peccatore sosteneva di essersi così comportato per preservare la cultura (cosa che invero gli era riuscita, nel paese), e di lavorare su commissione per sostenere le spese. Perché stampare, mi chiedevo, anche testi non sacri? Lo scellerato metteva in dubbio perfino la giustezza dell'Indice! Dubitava dell'operato di nostra Santa Madre Chiesa! Era abominevole, eppure vedevo che non agiva così per cattiveria. Non per questo poteva restare impunito.
Purtroppo, era in una posizione di forza per via della folla che ci attendeva fuori dalla porta. In quel momento tornarono Joaquin e Adolf, raccontando di essere stati aggrediti da Heinrich (come diavolo si chiama???): era stato lui, quindi, a ferire Gian Carlo e a bruciare la stamperia? Facile a credersi per noi, non certo per chi non sapeva dei sosia.
Tuttavia, Don Beppe colse subito l'occasione di mercanteggiare la sua impunità, proponendoci di chiudere un occhio sulle sue attività in cambio della possibilità di uscire vivi dal paese (con una minaccia molto poco velata!) (se chiudi un occhio come farai???)
Fratello Celestino fu da subito incline ad accettare, sostenendo che il pericolo del sosia di Adolf fosse molto più pressante di una stamperia oramai bruciata, e così la pensava anche Adolf (salvo durante uno dei suoi soliti cambi di personalità), ma io non potevo venir meno al mio compito di perseguire l'eresia.
Adolf, peraltro, farneticava: sostenne addirittura che, data la forza dimostrata dal suo sosia, questi fosse in realtà un morto. Cosa assurda, visto che aveva dato più volta prova di una certa intelligenza: messo davanti alla contraddizione, non seppe cosa rispondere. Fratello Celestino e Don Beppe, in realtà, affermarono misteriosamente di avere una possibile spiegazione, ma non vollero rivelarmela. Probabilmente volevano solo confondermi.

Restammo per tutta la notte a fronteggiarsi, Fratello Celestino con la teoria del male minore, io rifiutandomi di lasciare impunito un eretico. Non avrei voluto mandarlo al rogo, le sue intenzioni erano buone, ma avrei almeno preteso un pentimento ed una pena, sia pure lieve. Ma Don Beppe pretendeva la mia parola e garanzia d'impunità per lasciarci andare.
Ad un tratto, Fratello Celestino decise di uscire, ed io feci lo stesso, data l'oziosità della conversazione, ma Fra Beppe ordinò alla folla di lasciar passare solo il templare, a meno che io non dessi quella parola e promessa di menzogna che un uomo pio come me non può dare.
Ero disposto al martirio piuttosto che a cedere.
Ma avrei preferito evitare il martirio, se possibile: devo ancora servire il Signore. Mi riunii ancora a colloquio con Don Beppe, e a quattr'occhi( a tre, vorrai dire!) fu ben più accondiscendente. Accettò di pentirsi, e come penitenza di lasciare i suoi fedeli e amati paesani: una pena leggera, lo ammetto, ma non così difforme dalla colpa, e confacente alla situazione. Infatti, Don Beppe dichiarò alla folla esultante che avevo promesso di non denunciare nessuno, e che d'altro canto aveva ragione di reputare Adolf innocente del ferimento (non grave, per fortuna) di Gian Carlo, così potemmo andarcene tutti assieme.
La nostra nuova meta era Grinzane Cavour, da dove provenivano tante, troppe bottiglie trovate in possesso di personaggi vicini ai Decussi. Anche a Don Beppe ne erano state donate alcune, in occasione un una stampa di un libro all'Indice...che non era certo Pinocchio.

domenica 11 dicembre 2011

Vicus Novus

Nella vicenda torinese, benché il rischio più grave fosse oramai scongiurato, rimanevano ancora alcuni punti da acclarare. In particolare, ci turbava quella stamperia di libri proibiti che, a quanto ne sapevamo, era stata installata a Vicus Novus, un paesino a circa quindici chilometri da Torino. Decidemmo di recarvici già il mattino dopo la notte dell'assassinio del Cardinale, dopo aver parlato con Pautasso, e, per una volta, di seguire una procedura standard, tanto più che avevamo l'indirizzo della presunta stamperia.

Mi presentai dal Parroco, Don Beppe, con la mia patente di Inquisitore, spiegando la mia esigenza di perquisire la sede dell'indirizzo. Il brav'uomo fu disponibile, pur assicurandoci che il luogo non era sede di una stamperia, ma semplicemente la residenza di due persone dabbene, nonostante avessero avuto la disgrazia di un figlio poco savio.

Devo riconoscere che Don Beppe fu davvero paziente, perché Adof era veramente molesto, quel giorno, forse posseduto da personalità diverse, e lo stesso Jaoquin non riusciva a dominarlo mentre farneticava di roghi da appiccare a tutta la popolazione, senza nemmeno un giusto processo. Credo che dovremmo valutare l'ipotesi di un buon esorcismo a quel ragazzo e valutare se portarlo ancora con noi.

In effetti, i due proprietari della casa all'indirizzo in nostro possesso sembravano due ottime persone, due ex docenti proprietari di una vastissima biblioteca, nella quale, però, non spiccavano testi proibiti. Ci spiegarono che, prima della guerra, Vicus Novus era stata sede di una importante stamperia, che però era stata distrutta dai bombardamenti, sicché gli abitanti avevano una grande abbondanza di testi (anche Don Beppe ne vantava un'ampia collezione). La stamperia, però, non aveva mai ripreso a lavorare, o almeno così dicevano.

Eppure, il marchio era proprio quello che avevamo trovato sui libri proibiti. Fra questi, c'era anche il Sine Requie, stampato nel 1953

venerdì 9 dicembre 2011

Extra Ecclesiam nulla salus

Dopo la morte di Gesù, i sacerdoti farisei chiesero a Pilato «[Mt 64]Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: E' risuscitato dai morti. Così quest'ultima impostura sarebbe peggiore della prima!»

Questa richiesta prova, chiaramente, che sin dalla morte terrena di Cristo c'era chi voleva confondere i Fedeli. Ma se allora costoro erano increduli, in seguito anche i malvagi si dovettero arrendere di fronte alla Verità: non per questo, però, cessarono di ordire inganni, senza risparmiare nemmeno il Salvatore. Noi uomini di Chiesa siamo saldi abbastanza per non cadere negli ingenui trucchi dei malvagi e del Demonio, ma dobbiamo preservare dall'inganno anche chi ha meno saggezza e consapevolezza di noi.

Io stesso fui chiamato a tale dovere.

La notte stessa dell'assassinio del Cardinale, essendo stati scacciati dal suo palazzo, ci dirigemmo verso i sotterranei della Mole, dove – così avevamo intuito date le leggende sulla sacralità blasfema di quel luogo, che lo rendeva caro ad eretici e sette – probabilmente si incontravano gli adepti della cellula torinese dei Decussi, che ordivano trame dai contorni ancora indefiniti ma minacciosi.

In realtà, la Mole Antonelliana (o quel che ne restava, dopo i bombardamenti e l'incuria che merita un tempio israelita) appariva tranquilla, dal di fuori, nella sua nuova funzione di magazzino. Eppure, io sentivo ancora quel canto, quella nenia che già avevo udito nella notte in cui ispezionammo il Museo Egizio: probabilmente, era la setta riunita, che cantava il proprio distorto senso del sacro.

Fu però Joaquin a trovare l'accesso ai sotterranei, attivando una leva occultata nelle forme di una statua troppo nuova e troppo profana per essere realistica: si trovava in un vicolo, e un muro lì vicino si apriva su una scalinata che portava nelle viscere della terra, ai cunicoli che un tempo erano serviti a difendere la città. Scendemmo di almeno una quindicina di metri in un'oscurità appena diradata dalle nostre candele, sempre più giù, sempre procedendo in direzione della Mole, sino a quando non trovammo un cunicolo segnato da sporadiche candele. Lo seguimmo, ignorando le diramazioni, sebbene in una di esse avessi intravisto balenare una figura che mi pareva fosforescente. Ma era tempo di affrontare la setta, e poco ci spaventava un individuo barcollante, rotto dalla sua stessa malattia.

Giungemmo così ad un ampio sotterraneo, dove finalmente Nuntium Gaudi e Liberanosamalo avrebbero potuto avere la massima efficienza. Lo spettacolo era preoccupante: in un recinto, erano abbandonati un gruppo di infanti piangenti; poco oltre, c'erano i membri della setta, una ventina, attorno ad un individuo che pareva il capo, mascherato, assiso su un trono vicino ad un sarcofago che – non faticavamo ad indovinarlo – era quello trafugato dal Museo. Egli celebrava un successo imminente, sostenendo che il contenuto del sarcofago avrebbe loro permesso di fare a meno del Re Nero (ossia il capo dei Decussi) e di dominare e abbattere persino la Chiesa.

Non potevo permetterlo. Extra ecclesia nulla salus: non c'è salvezza, non c'è vita al di fuori della Chiesa.

Non facemmo in tempo ad agire: dietro di noi udimmo armarsi il cane di una doppietta, ci girammo di scatto, era l'uomo fosforescente. In un lampo, Joaquin fece per sparargli, ma la pistola si inceppò. L'uomo esplose il suo colpo, ferendo Joaquin e, in minima parte, Fratello Celestino. Ma non poté usare il secondo proiettile: lanciò un urlo, una costola gli uscì dal ventre. Dietro di lui c'era la figura orrenda di una Scannatrice.


Il mostro toccò appena Joaquin e Celestino, scaraventandoli lontano: per fortuna, non cercava noi e passò oltre. Puntò dritto sul capo della setta, che, tolta la maschera, somigliava moltissimo alla Contessa Malan, pur essendo un uomo di cinquant'anni. Probabilmente, era il Conte che aveva finto la morte, ma aveva fatto male ad inimicarsi i vertici della sua stessa setta, degli stessi Decussi che ora gli mandavano contro i loro mostri.

«Ah! In effetti avevo avuto la visione di un carro funebre, entrando qui», esclamò Adolf «ma non sembrava proprio una cosa importante, così non ve l'ho detto».

Non c'era tempo per insultarlo. Io mi precipitai al sarcofago, mentre la Scannatrice faceva scempio del Malan e inseguiva gli altri adepti: qualunque cosa ci fosse dentro, così pericolosa per la Chiesa, dovevo distruggerla.

Stranamente, il sarcofago aveva foggia egizia, ma non iscrizioni geroglifiche, bensì greche. Subito riconobbi il monogramma di Cristo.

Non ebbi il tempo di agire, perché comparvero Federico, il contatto di Joaquin, e un altro: essi si presentarono come Marco e Paolo, ed io risposi loro come Mattia. I vecchi nomi da seminario. Solo io e Celestino rimanemmo con loro (e questi solo su precisa richiesta e con voto di silenzio), per aiutarli ad aprire il sarcofago.

Dentro, c'era un uomo incredibilmente ben conservato, benché fosse evidentemente morto da tempo (e stranamente non risorto nonostante le sue condizioni). Ciò che era più eccezionale, però, era la sua somiglianza con Nostro Signore Gesù Cristo. Era evidente che non poteva essere lui, visto che i Vangeli affermano chiaramente che era risorto nella carne: qualcuno aveva mummificato, forse con tecniche egizie, un uomo che gli somigliava in modo straordinario, proprio per ingannare i meno saldi nella Fede, dando loro ad intendere che Gesù non era risorto, e che quindi il Cristianesimo non aveva fondamento.

Quell'opera del demonio andava, evidentemente, distrutta, o qualcuno avrebbe potuto lasciarsi ingannare (perfino Celestino vacillava, ed ebbi l'impressione che perfino Marco e Paolo pensassero che nel sarcofago ci fosse il vero corpo di Cristo). Per fortuna, avevano portato con loro molta dinamite.

domenica 4 dicembre 2011

Libri occulti

Curiosa espressione umana, l'amore carnale ed erotico, ed è certo per il meglio che Paolo consigliò a chi vuole dedicarsi al Signore di astenersene, ed è un bene che la Santa Romana Chiesa Cattolica Apostolica continui a chiedere tale rinuncia ai suoi sacerdoti, a differenza di tanti cristiani eretici. Esso svia, porta alla follia, al favoritismo, in definitiva a derogare dalla propria missione, che è e sempre sarà di amare il prossimo senza distinzioni, come facciamo noi della Santa Inquisizione.

Si guardi Adolf: mentre noi passammo il resto della notte al convento, senza neppure tentare di rintracciare l'uomo che era fuggito, perdendosi fra le nebbie, egli a rischio della sua stessa vita, aveva voluto seppellire la strega “senza fare scempio del suo corpo”. Era un pericolo, ma nessuno di noi aveva avuto cuore di impedirglielo: del resto, se la sua concezione dell'amore consisteva nel condannare la sua donna ad una fame perpetua nel chiuso di una tomba sigillata, o ad essere uno spaventoso obbrobrio in cerca di carne umana privo di senno anziché darle la pace con un pietoso rogo che cancellasse la sua maledizione. Non è questa follia?

È una vera fortuna che, come insegna la Santa Chiesa, non esistano i morti senzienti, altrimenti una donna eretica e senza dubbio per molti versi straordinaria come quella, avrebbe avuto buone possibilità di risorgere nella forma di uno di questi pericolosissimi abomini. Mi stupisce che i miei compagni (i quali – lo so – in fondo al cuore nutrono tale superstizione) non abbiano provveduto a fermare Adolf.

Ad ogni modo, Adolf tornò vivo, il che lasciava pensare che avesse effettivamente seppellito la sua defunta amata, ma rimase sostanzialmente inattivo, come un burattino svuotato, per tutta la giornata.

Noi, intanto, avevamo perquisito il monastero, trovando un'altra copia del De monarchia demonica, il che ci lasciò immaginare che questa setta fosse affiliata proprio alla Societas diaboli con cui ci eravamo già scontrati. Occultato in un muro, con ogni evidenza da decenni, c'era ancora uno strano libro blasfemo, composto da una pagina bianca e una nera, che Joaquin individuò come il libro del Bianco e Nero. Probabilmente si trovava lì perché il monastero di Crea è situato in un logo che molte sette ritengono magico. Strana, invece, la modalità di ritrovamento: Celestino lo scoprì quasi in trance, come per un occulto richiamo. Il che la dice lunga su quali influenze e quali strani riti circolino fra i Templari, che pure sono per molti versi un valido sostegno alla Chiesa.

Ripartimmo dunque alla volta di Torino, dove giungemmo senza problemi. Raccontammo la nostra storia alle autorità, nella persona dell'omuncolo che aveva sostituito Pautasso, ovviamente omettendo alcuni particolari. Avremmo voluto conferire con il Cardinale, confidando che non fosse colluso con la setta, ma era in riunione con il suo pari grado di Genova: ci avrebbe ricevuto, ci fu detto, in seguito.

Mentre attendevamo, ci recammo da Pautasso, il quale non aveva novità rilevanti, ma ci disse dove trovare il cameriere che aveva soccorso lo strano individuo fosforescente. Ci recammo al bar nel quale lavorava, ma ci fu riferito che era sparito da alcuni giorni. Decidemmo di andare a cercarlo a casa sua, nella zone periferica della Vanchiglia: il suo appartamento dava su un cortile interno. Bussammo.

Nessuna risposta.

Bussammo più forte.

Ancora, nessuna rispota.

A questo punto, Fratello Celestino decise di “bussare” ancora un poco più forte, ed entrammo nel piccolo appartamento attraverso la porta sfondata. Un ragazzo, tremante, con in mano una patetica gamba di tavolo quale arma, era rannicchiato in un angolo, terrorizzato. Per rassicurarlo, gli dissi che facevo parte della Santa Inquisizione, Joaquin gli spiegò di essere membro del Sant'Uffizio e Fratello Celestino dei Templari. Come non fidarsi?

Era, ovviamente, il cameriere, che ci confessò di essere terrorizzato: la donna che, con lui, aveva raccolto l'uomo era sparita misteriosamente. Lui aveva avuto un colloquio con il Cardinale in persona, che si era fatto consegnare le spaventose foto di bambini trovati sul corpo dell'uomo fosforescente, e gli aveva intimato di tacere. Glielo intimammo anche noi.

Certo, era un bell'enigma capire cosa volesse quell'uomo che, barcollando (evidente per la malattia, che secondo Joaquin era un morbo tipico delle fabbriche di fiammiferi, causato dalle sostanze tossiche di cui si fa uso): forse voleva mettere in atto un ricatto, con quelle lettere?

Proprio questo morbo avrebbe potuto fornirci un successivo indizio: investigare sulle fabbriche di fiammiferi, oramai in disuso, dei Malan. Ma non era l'unica pista: il contatto di Joaquin ci aveva rivelato il luogo di stampa dei libri blasfemi che avevamo trovato, e non era lontano da Torino, per la precisione nel piccolo borgo di Vicus Novus. Infine, volevamo indagare sui sotterranei torinesi della zona della Mole.

Ma, prima di prendere ogni successiva iniziativa, volevamo conferire con il Cardinale, sicché ci recammo al suo palazzo.

Con nostra sorpresa, non solo non ci fu concesso di entrare sul momento, ma ci fu chiaramente dato ad intendere che non avremmo avuto la possibilità di conferire con il Cardinale nemmeno in seguito. Dopo poche proteste, ci allontanammo: in fondo, se egli avesse perso interesse a noi saremmo stati, almeno per il momento, più liberi di agire. Ma ci preoccupammo molto di più quando, alzando gli occhi per caso, Joaquin ebbe la ventura di vedere due ombre dietro la finestra dell'ufficio del Cardinale: una era quella di Sua Eminenza, l'altra sembrava proprio quella del nostro Adolf. O di Otto. O, come era probabile, del suo misterioso sosia che sembrava agire con molta influenza, sempre malvagia, a Torino.

Ritornammo sui nostri passi per cercare di raccogliere qualche informazione, quando improvvisamente il palazzo si animò di una innaturale confusione e concitazione, di cui approfittammo per intrufolarci dentro.

Qualcuno aveva attentato alla vita del Cardinale, forse era agonizzante,

Forse, già morto.

mercoledì 16 novembre 2011

Nel buio del dubbio, la luce del Signore vi indicherà la vostra strada

Appena Gioacchino si fu congedato, Frate Ardizzone assegnò a me e a Celestino (il quale, certo ispirato dal Signore, accettò di buon grado di continuare a collaborare con la Santa Inquisizione, dimostrando che un buon cristiano è tale qualunque veste porti) un incarico che avrebbe potuto rivelarsi di massimo rilievo, forse per la stessa sopravvivenza della Santa Romana Chiesa Cattolica Apostolica.

I cavalli erano già sellati, e senza nemmeno concederci il tempo di un riposo eravamo già in sella verso Torino, dove ci aspettava Gianpaolo Pautasso, un capo excubitor che aveva pesanti sospetti su accadimenti inspiegabili che lì accadevano. Un uomo fidato. Sapevamo che non avremmo potuto fidarci di nessuno: era possibile che la corruzione fosse giunta fra le alte sfere locali, e financo nel seno della Chiesa. Del resto, ci era stato rivelato anche che avevamo un nemico potente, e – molto mi spiace ammetterlo - nelle stesse santissime fila dell'Inquisizione. Del resto, nessuna congrega umana è così santa da santificare chiunque ne faccia parte, e anzi spesso il Demonio si bea nel confondere le file dei fedeli. Il nome del nostro potente nemico era il Venerabile Fra Ruina.

Dopo tre giorni di cavalcata senza storia, arrivammo alle porte di Torino, ma decidemmo di passare la notte nella Rocca dei Cavalieri della Sindone, presso l'antico Palazzo di Stupinigi. Qui fummo accolti con pia disponibilità, anche perché, come ciascuno sa, tale Ordine è strettamente legato a quello dei Templari.

Il mattino dopo, ci siamo presentati da Pautasso che (a quanto si è scoperto) era stato commilitone di Fratello Celestino, e questo l'ha reso particolarmente ben disposto nei nostri confronti. Purtroppo, la questione era assai oscura: strani Morti si aggiravano per la città. Due neonati Ferox erano sbucati dal Po, aggredendo alcuni excubitores, che a fatica ne avevano avuto ragione e che, prima di eliminarli, avevano notato le loro schiene bruciate e un marchio a fuoco dietro l’orecchio, raffigurante un serpente. Ma noi stessi fummo testimoni del peggio: un altro mostro, una sorta di Scannatrice(in realtà non c’entra nulla, ndr), fu avvistato nella zona di piazza Vittorio proprio mentre noi ci trovavamo da Pautasso, a Palazzo Città (nella vicina piazza Castello). Accorremmo, la eliminammo soprattutto grazie al vigore di Fratello Celestino.

Purtroppo, sapevamo di chi fosse il corpo: era quello di Padre Rosario, inviato da Frate Ardizzone a Torino prima di noi, e scomparso da alcuni giorni.

Il corpo del poveretto era stato svuotato delle interiora, per la precisione di tutto l'intestino e di una parte delle altre. Inoltre, Fratello Celestino notò che da uno dei suoi due occhi cuciti usciva una pergamena, recante strane rune: era chiaro che non si trattava di un morto ordinario (come se non bastassero!), ma del frutto di un rito malvagio!

Subito pensai alla mummificazione, e pensai di chiedere un permesso per visitare il Museo Egizio, un tempo assai noto in quella città, immaginando di potervi trovare indizi. Ma, prima di poter prendere tale iniziativa, mi attendeva un'altra sorpresa.

Il mattino dopo, infatti, da Pautasso io e Fratello Celestino trovammo una situazione intricata: con nostro grande stupore, vedemmo Gioacchino e il defunto Vent-Otto (che però era vivo e vegeto) intenti a sporgere denuncia per il furto di un diario, e un contadino che asseriva di averli visti (o meglio, di aver visto un uomo uguale a Vent-Otto e un altro che aveva lo stesso bastone di Gioacchino) portare Padre Rosario in campagna, su un carro nero, e trafiggerlo al cuore col bastone animato, mentre 28 lo teneva, per poi ricaricarlo sul carro.

Certo, la dinamica pareva strana, come subito notò Celestino, ma ancor più strano era che il presunto Vent-Otto che avevamo davanti, non era Vent-Otto! Asseriva invece di chiamarsi Adolf Stettermaier; sosteneva di conoscerci sulla base di un sogno, e di aver giurato di difendere Gioacchino (infatti appena giunti a Torino erano stati anestetizzati durante un'orgia, riportati in albergo e derubati, a quanto pareva dal racconto che ci fecero dei giorni precedenti).

Non mi fidavo: gli aprii la camicia e...sul petto non c'era più il numero 69.

Invece, era tatuato un numero 9.

Quanti altri uomini come lui, frutto (a quanto risultava) di un esperimento di clonazione nazista, c'erano in giro? Troppi?

E, forse, volendo fidarci di Gioacchino, uno di costoro aveva ucciso, la notte prima, e praticato il rito per risvegliare in quel modo l'inviato di Frate Ardizzone? Oppure era stato proprio questo sedicente Adolf a carpire la fiducia di Gioacchino, collaborare nell'addormentarlo, e poi usare questo alibi?

La dinamica particolare lasciava sospettare il tentativo di incastrare il nostro amico e la sua nuova guardia, ma davvero si può prestare fede a chi si finge frate, lavora per la Chiesa, ma si dedica alle orge più sfrenate?

E, tra l'altro, come scoprimmo in quella circostanza, è il fiero nipote di Friedric Nietzche, il quale certo non è il più pio fra i filosofi?

Intrigo a Torino

Passati pochi giorni dalla disavventura con la setta di Belzebù, i miei compagni ed io ci recammo al cospetto di Frate Ardizzone. Egli mi consegnò una busta, che conteneva una missiva di Federico, il mio contatto a Torino. Poco tempo addietro avevo ricevuto un'altra sua lettera, in cui mi aggiornava circa i risultati di alcune sue ricerche: aveva scoperto che, tra i rami del mio albero genealogico, trovava posto nientemeno che il grande filosofo tedesco Friedrich Nietzsche.

Ora mi scriveva nuovamente, chiedendo di recarmi urgentemente a Torino, questa volta non sotto mentite spoglie, ma in veste di me stesso, Sebastian Joaquin, erede di Nietzsche. Sfruttando la popolarità del mio prozio, sarei entrato in contatto con organizzazioni massoniche dalle spiccate tendenze anticlericali, vicine, a loro stesso dire, all'autore dell'Anticristo. Il Sant'Uffizio aveva ragione di credere che i “fatti strani” che stavano accadendo a Torino, di cui nella lettera non si faceva menzione più approfondita, erano in qualche modo collegati a queste organizzazioni. Il mio compito, in quanto agente del Sant'Uffizio, sarebbe stato indagare su questi fatti strani e scoprire chi o che cosa vi stava dietro, anticipandone le mosse, per quanto possibile.

Letta la missiva, mi accomiatai rapidamente dai miei compagni, come presentendo che presto le nostre vie si sarebbero di nuovo incrociate. Mi recai all'hotel Arno, come indicato da Federico, e quando aprii la porta della stanza assegnatami, numero 69, mi ritrovai davanti a una visione triplicemente scioccante: 1) il mio amico Otto, il cui corpo avevo visto prima perforato da una pallottola, quindi fatto a pezzi, si sollazzava ora con una giovane, nella vasca della mia stanza; 2) quando mi vide si alzò in piedi, non curandosi di coprire ciò che, ad ogni modo, sarebbe stato impossibile coprire col solo ausilio delle mani; 3) si rivolse a me come parlando a un frate – mentre il vero Otto da tempo aveva capito che non ero che un falso – e mostrando inoltre un rispetto nell'eloquio e una devozione, che mai avevo udito proferire da quella bocca; infine mi accorsi che il numero che aveva tatuato sul petto non era il 69, ma il 9. Era questa la “sorpresa” a cui si riferiva Federico nella lettera, in cui accennava anche che colui che avevo di fronte era il risultato di esperimenti genetici nazisti!

Era evidente che chi avevo di fronte non era Otto, ma una sua copia, con una personalità apparentemente diversa da quella del mio amico. Mi disse di chiamarsi Adolf Stettermajer e che si ricordava di me, padre Joaquin, anche se i suoi ricordi erano molto confusi, come in un sogno. Dopo che gli ebbi rivelato che non ero un prete – infatti, benché non potessi fidarmi ciecamente di lui, non c'era bisogno di mentirgli, non dovendo più nascondere la mia identità – ci preparammo per il costosissimo viaggio in treno che Federico aveva provveduto a prenotare per noi.

Il viaggio procedette senza intoppi. Arrivati alla stazione di Porta Nuova, fummo subito avvicinati da un uomo, che ci invitava, a nome dell'associazione che rappresentava, presso corso della Redenzione(ex Stati Uniti), per quella sera stessa. Una carrozza nera ci scortò fino alla camera d'albergo già prenotata e pagata, come mi era stato scritto da Federico: scaricati i bagagli, la carrozza ci portò all'appuntamento. Una volta arrivati, io e colui che presentai come la mia guardia del corpo, fummo accolti calorosamente. Mi presentarono diverse personalità dell'alta società torinese e conversai amabilmente con alcuni di loro per qualche tempo, raccontando o inventando aneddoti sul mio prozio. Tra gli altri, ebbi il piacere di conoscere la contessa Elisa Malan: con lei e altre signorine trascorsi la notte e anche il vecchio Adolf ebbe il suo bel da fare.

Ci riportarono all'albergo spossati, mentre già albeggiava. Io salii in camera, mentre Adolf fu scaricato semi-svenuto fuori dall'albergo. Quando la mattina dopo mi ripresi, notai che, durante la nostra assenza, qualcuno doveva aver trafugato il diario di Nietzsche, che Federico mi aveva affidato e che io avrei dovuto custodire gelosamente. Da quanto avevo avuto modo di vedere, conteneva rune e simboli a me sconosciuti; non era difficile immaginare a chi sarebbe potuto interessare.

Ci recammo dunque alla polizia per sporgere denuncia del furto. Lì avemmo due sorprese, la prima molto piacevole, la seconda decisamente spiacevole. Infatti, mentre stavamo denunciando l'accaduto, con nostro sommo stupore entrarono Celestino e Fra Novella! Con loro c'era un agente grosso quasi quanto Celestino e un contadino, che appena ci vide ci puntò il dito contro, gracchiando: “Sono loro i colpevoli, credetemi! Hanno ucciso loro quel prete!”.

Tutto ciò era accaduto in così poco tempo e molte domande ora ci attanagliavano. Chi aveva rubato il diario? E perché un volgare villico ci accusava di un misfatto che non avevamo commesso? C'era una qualche connessione tra questi fatti? A queste e altre domande avremmo presto dovuto trovare una risposta.