domenica 25 settembre 2011

I banditi


Grazie Signore, grazie! Sia lode alla Tua infinita saggezza, con la quale metti i Tuoi servi in condizione di operare per il Bene anche nella maniera più inaspettata, mentre perseguono altri fini. E grazie per averci reso ancora una volta strumenti dei Tuoi disegni, per confondere chi si oppone a Te: non esiste premio più grande per noi.
(Forse Vent-Otto in verità preferisce altre forme di premio)
Partiti alla volta di S. Ezechiele per la via più diretta, in groppa ai destrieri elargiti da Frate Ardizzone per rendere più celere il nostro inseguimento ai malvagi, cavalcammo per tutto il primo giorno senza incontrare imprevisti, sinché a sera giungemmo in vista della stazione di posta, dove fummo accolti da un oste che, per un giusto emolumento, ci fornì non solo buon cibo e un ottimo giaciglio, ma anche un insperato aiuto. Grazie alle preghiere che io, fratello Celestino e (almeno in apparenza) “fratello” Gioacchino stavamo rivolgendo al Signore, il Signore ispirò all'oste una risposta utile alla peccaminosa ricorrente domanda di Vent-Otto, che sempre ricerca la il peccato che viene eternamente punito dall'Infernal Bufera. Il nostro ospite, infatti, negò la disponibilità di avvenenti fanciulle, ma rivelò che, due giorni prima, erano transitati da lì un uomo ed una donna, non giovanissima ma seducente, su una motocicletta: erano partiti subito, e noi non stentammo a capire che si trattava di coloro che stavamo cercando. Oltre a loro, erano passati un gruppo di americani cacciatori di morti, diretti verso Faenza, in luoghi ad avviso dell'oste pericolosissimi.
Dopo una notte ristoratrice, ripartimmo, ma questa volta il viaggio non sarebbe stato così tranquillo. La prima avvisaglia fu l'incontro con un Simplex, reso inoffensivo dalla posizione, in quanto era innaturalmente impigliato sui rami di un albero cresciuto su una scarpata. Si contorceva, impotente: non fu difficile rendere inoffensive quelle povere spoglie, oramai abbandonate da un'anima che doveva essere stata molto pia. Era il corpo di un francescano.
Recuperammo il rosario a frammentazione, ma il poveretto non aveva altro con sé: i fori da proiettile nella schiena mostravano chiaramente che era stato ucciso in un agguato, probabilmente dai banditi che infestavano la zona.
Poco oltre, trovammo le tracce di un nuovo agguato, che doveva aver coinvolto la moto che stavamo cercando. C'erano tracce pesanti, come di una sgommata, c'erano i segni di un incidente, c'erano tracce di sangue, c'era infine il segno delle ruote della moto che era ripartita per la sua strada. Ma aveva perso qualcosa?
C'erano anche molte altre tracce, a piedi questa volta, evidentemente quelle degli aggressori, che portavano ad un sentiero quasi invisibile: dominati dal desiderio di giustizia come eravamo, decidemmo di seguirle.

Il sentiero portava ad un casolare, le cui condizioni erano discutibili, ma non certo quanto i suoi abitanti: non appena ci videro cominciarono a spararci addosso, nonostante i segni che portavamo su di noi. E, forse, chi non rispetta i Servi del Signore può rispettare il Signore stesso? No, e infatti alle pallottole gli scellerati unirono le bestemmie, orrende e sacrileghe. Io e fratello Celestino ci guardammo negli occhi, iniettati di sangue per l'offesa a Nostro Signore: senza bisogno di parlarci, ci gettammo fuori dai cespugli, incuranti di ogni protezione, smaniosi di porre fine, anche con la violenza, a quello scempio.
I proiettili ci saettavano intorno, qualcuno di essi anche addosso, ma non poterono scalfire la nostra Fede né le nostre corazze: in breve, sfondammo la porta, entrammo nella casa, e stendemmo a pugni gli inquilini che le precise pallottole di “fratello” Gioacchino, e perfino di Vent-Otto, avevano lasciato in piedi. In breve, gli scellerati si arresero. L'unico morto fu un giovane che non si voleva rassegnare alla sconfitta, e che fu freddato da “fratello” Gioacchino, che ai pugni preferisce le pistole.
In breve, però, ci rendemmo conto che gli scellerati, che vivevano nella lordura come le fiere, meritavano più volte la morte, non solo per le bestemmie pronunciate, ma anche perché nella loro casa trovammo gli inequivocabili indizi di molteplici crimini, i bagagli derubati a molti viandanti (fra i quali non pochi frati) che erano stati loro vittime negli anni precedenti, come loro stessi ci confessarono.
Ma l'orrore più grave si trovava in cantina: qui era tenuta una donna, la donna della moto, ignuda, che era stata palesemente sottoposta a violenze, anche quelle del tipo più osceno e peccaminoso, al punto di essere ridotta in fin di vita. Alle percosse, alle umiliazioni si univa una piaga purulenta, che il “medico”, “fratello” Gioacchino provò a guarire, stranamente ottenendo un successo limitato, visto che l'adoratrice del Demonio cadde in uno stato semicomatoso, probabilmente tenuta sul limite della vita dalle sole ardenti preghiere che rivolgevo al Signore affinché ella avesse modo di pentirsi prima di essere mandata al rogo.
A questo punto, si accese una discussione fra di noi. Io ero propenso a continuare subito, senza por tempo in mezzo, il nostro viaggio verso S. Ezechiele: troppo era il vantaggio dell'adoratore del demonio sfuggito ai banditi! Quanto a costoro, proponevo di massacrarli in espiazione dei loro peccati. Fratello Celestino, più attento agli aspetti formali, proponeva di portarli al più vicino paese, la stazione di posta nel quale avevamo trascorso la notte, per consegnarli all'Inquisizione, anche in considerazione della numerose prole d'infanti che quella scellerata famiglia di criminali cresceva  nel peccato e nella lordura. “Fratello” Gioacchino concordava con me sull'opportunità di proseguire, ma riteneva che i peccatori fossero stati sufficientemente puniti dal nostro intervento. Bestemmia! Come può un uomo di Chiesa pensare un simile obbrobrio? Come si potevano risparmiare uomini rei di assassinio, stupro, furto, rapina e financo di bestemmia? Certo, io avevo già loro perdonato di cuore tutto, compreso l'avermi sparato, perché sta scritto che si devono amare i propri nemici. Ma questo per quanto riguarda l'anima: il corpo è tutta un'altra faccenda.
Proposi una mediazione: chiudere tutti in una stanza ben serrata, e recuperarli al ritorno, qualora fossero sopravvissuti (anche per dar loro modo di riflettere sui loro peccati), ma anche questa proposta non fu accolta.
Fu Vent-Otto a trovare la soluzione, con il suo pragmatismo laicale: nella rimessa trovò, infatti, un camion che, messo in funzione da Fratello Celestino (più per grazia divina che per sua capacità), ci permise di raggiungere il paese in breve tempo. Lì, tra l'altro, apprendemmo che la banda infestava da tempo la zona, e potemmo affidare Sandra Iaconi (così si chiamava la donna da noi salvata sino al rogo, come avevamo appreso grazie ad alcuni documenti trovati fra la refurtiva, insieme alla maschera demoniaca di Lilith, che ella doveva avere indossato nei riti sacrileghi) a cure più qualificate di quelle che potevano essere prestate da “fratello” Gioacchino.
Così il Signore aveva guidato i nostri passi ad estirpare un male di cui nemmeno conoscevamo l'esistenza, e insieme ci aveva donato preziosi elementi per continuare la nostra caccia ad un male ancora più grave.(Molti scudi, ndr)

Senza attendere ulteriormente, ripartimmo alla volta di S. Ezechiele, nuovamente a cavallo perché nel tragitto avevamo pressoché esaurito le scorte di carburante. All'imbrunire, eravamo nella derelitta e abbandonata città di Faenza, nella quale, trovata una casa ancora in condizioni accettabili, passammo una relativamente tranquilla (salvo alcune farneticazioni di “fratello” Giacchino, che sembra proprio che abbia le visioni, o almeno le allucinazioni uditive) di sonno e preghiera.


venerdì 23 settembre 2011

Gli eroi

Da un pò seguiamo le vicende di un pugno di eroi, ma poco conosciamo di costoro. Chi sono e sopratutto cosa li anima e sostiene nella loro quotidiana lotta contro il male:
Fratello Ariosto: "Il Colto". Le sue conoscenze degli argomenti e della storia sono vastissime. La sua lucidità e calma sono proverbiali, tanto quanto il suo sadismo quando cade in preda all'ira (da cui il soprannome GranBrace). Nel gruppo è il fidato compagno nonché spalla di fratello Celestino, che accompagna e sostiene in ogni situazione o mischia e dal quale viene spesso redarguito per i suoi modi un po' inquisitoriali.
Tarocco Dominante: Il Papa
Fratello Celestino: "Il Saggio". Sempre pronto a dispensare consigli agli amici e mazzate ai nemici. Ex alpino sopravvissuto all'inferno del fronte russo gode di molta considerazione e rispetto all'interno del gruppo (anche il suo enorme Expiator). Spesso ricopre il ruolo di leader, sopratutto quando ci sono da appianare discussioni interne. Ultimamente sta cominciando a tollerare sempre meno le "visioni" di padre Joacquin, il suo sospetto è che il Frate medico abbia poco a che vedere con la medicina.
Tarocco Dominante: La Forza
Padre Joacquin: "Il Misterioso". Scaltro e furbo, quanto abile con le pistole. Tipo versatile e molto emotivo. Dovrebbe essere (e uso il condizionale non a caso) il medico del gruppo, ma in realtà è la cosa che gli riesce meno. Spesso tiene delle posizioni alquanto ambigue, nelle discussioni di gruppo, cosa che provoca il sospetto nei compagni (e ultimamente anche la rabbia di Celestino). Proverbiali sono gli scontri dialettici con quest'ultimo
Tarocco Dominante: La Papessa
Otto von Rokken: "Il Dotato". Mai aggettivo potrebbe essere più azzeccato e non si riferisce alle doti mentali dell'individuo. Nel gruppo è la mina vagante. Ha fiuto per i guai e spesso ci si "ficca" a testa bassa solo per le sue brame. Solitamente è l'elemento di disturbo, quello che può fare tutto senza vincoli ecclesiastici e che fa della "sboronaggine" un'arte. La sua lingua è tagliente e diabolica, per coloro che intrattengono un dialogo con lui (e divina per le donne che rasserena nelle buie notti). Nonostante sia tedesco, è un grande amante della cultura, ma sopratutto dei dialetti italiani, che parla con grande abilità. Il fatto che ricordi poco o nulla del suo passato e che abbia tatuato sul petto il numero 69 rende questo individuo ancora più affascinante.
Tarocco Dominante: Il Carro


mercoledì 21 settembre 2011

La setta

Infinite sono le vie del Signore, e non di rado l'imperscrutabilità delle Sue scelte utilizza i piani dei malvagi per difendere il Bene. Questa è una chiara prova di quanto superiore sia il potere celeste d'Iddio rispetto a quello infernale di Satana – che mai potrebbe sfruttare il bene per i suoi scopi. Quanti esempi ne forniscono gli accadimenti dell'ultima giornata!

Io e Fratello Gioacchino arrivammo in casa di Olmi poco dopo la fine della lotta, richiamati da un tardivo istinto di pericolo: se per questa volta Agnus Dei non poté dare il suo contributo nell'alleggerire il mondo dai Dannati, i nostri occhi diedero un forte contributo alla ricerca di indizi della casa. Se non avessimo trovato nulla, saremmo stati ad un punto morto.
Proprio per questo, per eliminare l'unico nostro sospettato ancora vivo, qualcuno aveva assassinato Olmi, tornato appunto come Maior. Per nostra fortuna, chi aveva provveduto al crimine non conosceva tutti i nascondigli segreti della casa nella quale aveva perpetrato l'orrido delitto, tanto più orrido in quanto perpetrato ai danni di un sodale: ciò serva da monito a chi si accompagna ai malvagi.
Forse, se fosse fuggito anche Olmi, avremmo perso ogni traccia, ma ecco che per la prima volta il Male servì a sconfiggere il Male.
La cassaforte, certo, era stata ripulita dei suoi segreti (incluso, senza alcun dubbio, un libro): vi erano però stati lasciati molti preziosi, che decidemmo di prelevare in modo che gli excubitores pensassero ad un furto a scopo di rapina (siete una banda di disgraziati, ndr). Frate Ardizzone, infatti, ci aveva raccomandato di non dare adito nemmeno al sospetto che stessimo indagando su un culto satanico.
Non era stato, invece, scoperto un cassetto segreto di una meravigliosa scacchiera (realizzata dall'illustre opificio “L’indovinello”), al cui interno trovammo tre lettere, di cui una scritta in un codice decifrabile, a quanto risultava, solo grazie al libro oscuro …. .
Le altre due lettere, invece, pur scritte in tono enigmatico, non potevano celare il loro significato a menti illuminate dall'aiuto d'Iddio. Erano firmate da un certo Belzebub, e non ci fu difficile capire che gli affiliati alla setta sacrilega usavano chiamarsi l'un l'altro con il nome di un Diavolo, un Diavolo le cui sembianze erano effigiate nella maschera che costoro indossavano nei loro blasfemi rituali. Ebbene, si annunciava un rito, un rito sacrilego che avrebbe avuto conseguenze enormi e tremende, un rito che si sarebbe svolto nel volgere di appena venti giorni, nel giorno di San Renato, il 12 novembre.

Bisognava agire rapidamente. Sistemato Vent-Otto in uno Spedale dove un'accolita di suore potesse provvedere a lenire i suoi dolori e a guarire la sua ferita, noi seguimmo la labile pista che avevamo trovato.
L'unico aggancio ci portava all'Arcobaleno: il proprietario, un vero artista, era chiaramente un uomo timorato di Dio, desideroso di aiutare dei sant'uomini come i templari. Per nostra fortuna, si ricordava di chi era venuto con Olmi: era un certo Sandro Adamo, un pentito che ora contribuisce alla tutela dell'ordine, o quanto meno tale sarebbe il suo dovere. Un dovere che, a detta del suo superiore, aveva sempre atteso egregiamente, senza creare problemi: negli ultimi giorni, però, era sparito.
Casa sua, dove ci recammo rapidamente, era vuota, a parte un biglietto, che interpretammo come rivolto a noi, in cui chi scriveva annunciava di attenderci in una vecchia casa diroccata dalla pessima fama, ben nota nella zona. Era chiaramente una trappola, ma decidemmo di recarci egualmente sul posto: non sarebbe stata la prima volta che, per confondere i malvagi, Iddio rivolgeva contro di loro le loro stesse astuzie. In effetti, la trappola scattò, ma non ne riportammo danni: appena fummo entrati dal retro, tre Simplices ci aggredirono, mentre da dietro, ignudo salvo la maschera ed un'enorme accetta, ci assaltava Adamo, non prima di aver dato fuoco, con l'ausilio di una tanica di benzina, alla catapecchia.
Cantò Angnus Dei, cantò Libera Nos A Malo, suonarono le pistole di Fratello Gioacchino: in breve, avemmo ragione dei nostri avversari, ma fummo costretti alla fuga.

E, ancora, ci dovemmo servire del Male per perseguire il bene. L'unica speranza, ora, era tradurre la lettera cifrata, e per questo serviva La Pseudomonarchia dei Demoni.  Frate Ardizzone ci indirizzò ad un suo segretissimo contatto, un eretico scomunicato che, tuttavia, l'Inquisizione teneva vivo in una gabbia dorata in virtù della sua straordinaria conoscenza dell'Occulto e soprattutto dell'Alchimia. Ci recammo da lui in segreto, e ci accolse con gentilezza formale e parole blasfeme, irridendo la Sacra Fede e insinuando dubbi circa la stessa saldezza dei nostri cuori, adombrando segreti che lasciava intendere di conoscere. I più oscuri parevano essere quelli su Fratello Gioacchino, del quale parevano in dubbio persino i Sacri Voti.
In altre circostanze, i nostri expiatores avrebbero messo fine alla discussione, ma purtroppo in questo caso il blasfemo ci serviva vivo, sicché passammo al motivo della visita. Egli non conosceva  i luoghi blasfemi di Firenze nei quali meglio si sarebbe potuto tenere il rito, ma mostrò di conoscere bene il libro blasfemo che avrebbe fornito il codice per la lettera cifrata trovata in casa di Olmi. Ne aveva perfino posseduta una copia, prima che l'Inquisizione ardesse la sua biblioteca, lasciandogli la sola Bibbia.
Grazie ad una divinazione, l'alchimista trovò tre copie del libro: una era stata fino a poco prima a Firenze, una seconda si trovava a Ravenna, una terza a S.Ezechiele. Questa, in particolare, aveva aggiunte non originali.
Non avevamo scelta: con la benedizione di Frate Ardizzone, decidemmo di partire alla volta di S.Ezechiele.

martedì 13 settembre 2011

Intrigo a Firenze

Il Demonio, nella Valle di Lacrime che è questo mondo, conosce mille modi di insinuarsi nel cuore degli uomini, ma ancora non rifugge dal più antico dei suoi espedienti, quello di incarnarsi nelle belle forme delle donne. O donna tentatrice, o fonte prima del peccato, che non risparmi neppure coloro che dovrebbero essere votati al solo amore d'Iddio!
Come già sapeva il Poeta
“Godi, Fiorenza, poi che se'  sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!”
Che oramai l'antica Firenze, che già il fratello Savonarola provò invano a purgare, si fosse avviata ad essere una nuova Gomorra ci fu conformato da Frate Ardizzone, al cui augusto cospetto fummo introdotti non appena arrivati nella città toscana: financo un prete, Don Lucio Ferretti, facendo osceno scempio della sua esenzione dal coprifuoco, si recava con il favore delle tenebre in una casa sconcia, a frequentare le peggiori fra le donne, le meretrici che fanno commercio del loro corpo! Io e Fratello Celestino fremevamo d'indignazione alla notizia, mentre Vent-otto fremeva di eccitazione all'idea di indagare in un bordello.
Nonostante l'autorevolezza che emanava Frate Ardizzone, nonostante l'infermità che lo inchiodava sulla sedia a rotelle, egli stesso sapeva di non potersi fidare completamente di chi gli stava attorno: per questo, si era rivolto a noi per condurre, di concerto con un pugno di excubitores fidati, sebbene condotti da una donna, l'incursione nella casa delle oscenità, con l'obiettivo di cogliere sul fatto il prete sacrilego.
Mentre Vent-otto cercava invano di condurre indagini in loco, senza nemmeno riuscire ad accedere al luogo dei suoi indicibili desideri, io, Frate Celestino e Fratello Gioacchino ci siamo recati dagli exubitores per concordare il piano.
Jolanda, l'excubitor capo, accolse Fratello Gioacchino con freddezza e frecciate dalle quali non era difficile capire che i due avessero avuto una relazione, probabilmente fossero addirittura giuaciuti assieme, prima di una proditoria fuga di lui. Fratello Gioacchino mi garantì che questo avvenne prima che prendesse i voti, e io non sapevo se ammirarlo per essersi saputo sottrarre alla schiavitù femminea, o sospettare ancor più del suo passato.
C'erano però argomenti molto più pressanti. Stabilito il piano, calate le tenebre, partimmo alla volta dell'oscena residenza, una vecchia magione attorniata da un vasto giardino.

La trappola scattò con la precisione di un orologio. Scavalcato il muro di cinta, Frate Celestino fece irruzione dalla porta principale. Un istante dopo, io entravo da un ingresso laterale: in pochi istanti, avevamo ragione Celeste di un enorme individuo, chiaramente il guardiano, ed io di due loschi figuri che mi avevano accolto a pistolettate, costringendoli alla resa senza doverli nemmeno trucidare.
Nella casa serpeggiava il panico, un uomo si gettò addirittura dal secondo piano, dove però Vent-otto e Fratello Gioacchino erano appostati: non fu necessario fermarlo, ma aver cura del suo cadavere, riavutosi come Mortuus Simplex. Il peso dei peccati di quell'uomo lo aveva trascinato in una rovinosa caduta, spezzandogli l'osso del collo.
Del resto, le possibilità di fuggire erano veramente ridotte al minimo: anche chi fosse riuscito ad evitare le cure di Vent-otto e i letali proiettili di Fratello Gioacchino, sarebbe incappato nelle maglie dei dieci excubitores schierati intorno alla villa.
Tuttavia, gravati dal peso della coscienza, gli sconci acquirenti dell'obbrobriosa mercanzia si arresero senza opporre resistenza. Solo il più colpevole, il più sacrilego, colui che aveva lordato non solo il suo corpo con il meretricio, ma anche infangato il suo sacro voto provò a discolparsi, inscenando una patetica scena di redenzione di una meretrice ignuda. Ma noi capimmo che altri motivi lo avevano spinto in quel luogo.

Mentre i colpevoli venivano portati da Frate Ardizzone, noi perquisimmo ancora la casa: nella stanza del guardiano, Vent-otto aveva tra l'altro trovato un mazzo di chiavi sospetto, che aprivano perfettamente un capanno degli attrezzi sito in cortile. Non fu difficile trovarvi un sotterraneo, ma quello che vedemmo andava oltre le nostre aspettative, era peggio di un'alcova di prostituta! Quello era un luogo di adoratori del Demonio!
Un semplice altare, che certo aveva visto orribili scene, e una maschera di cartapesta effigiante un Demonio che non sapevamo riconoscere stavano a testimoniarlo.

Decidemmo di mettere Frate Ardizzone a parte di questa scoperta, ed egli ci pregò di indagare con discrezione. Ci permise anche di assistere agli interrogatori dei peccatori colti nella casa del Peccato, che già avevano avuto parte di quanto spettava loro. Ai fini della nostra indagine, l'informazione più interessante fu certo quella che ci fornì Gianni, il gigantesco guardiano della casa: periodicamente, affittava dietro lauto compenso il capanno a Luzzi, Olmi e altri tre individui, uno dei quali si presentava regolarmente mascherato, ma che a suo avviso era una donna. A quanto pareva, nessun altro, nella casa, sapeva di questo utilizzo, e lui stesso ignorava l'esistenza del sotterraneo, benché non potessimo chiederlo direttamente per via della presenza di un notaio che avrebbe riferito tutto all'Inquisizione.
Decidemmo di agire subito, prima che Olmi potesse lasciare Firenze. Ottenuto un mandato, io e Fratello Gioacchino ci recammo nel suo negozio di orafo, senza però trovare nulla di significativo, a parte un sigillo demoniaco. Più pericolosa fu la visita di Vent-otto e Frate Celestino alla residenza di Olmi. Il portiere assicurò di non averlo visto uscire, ma la casa sembrava essere stata abbandonata in fretta, portando via alcuni quadri e pochi libri. Ma la peggiore sorpresa fu di trovare, dietro ad una porta, un Mortus Maior che, prima di essere reso inoffensivo per sempre, quasi riuscì a ridimensionare radicalmente l'oscena virtù di Vent-otto.

domenica 11 settembre 2011

Sogni 1

Era da moltissimo tempo che il RE non sognava. Protagonisti del suo sogno erano quattro individui, due di questi templari. Figure curiose ed ambigue allo stesso tempo. Uno di loro in particolare lo colpì. Un frate penitente, per lo meno è cio che voleva sembrare, molto abile con le armi da fuoco, che con facilità si sbarazzava di due preti ed un excubitor.
Qualcosa di quell'individuo lo metteva a disagio: i suoi occhi. Avevano qualcosa di familiare, di già visto, carichi di rabbia e vendetta. Chi era costui che per un attimo era riuscito a metter timore al RE. Il RE non aveva paura di nessuno, tutti lo rispettavano e temevano, eppure quel gracile individuo era riuscito per alcuni istanti a farlo dubitare di questa sua certezza.
Si destò, se così si può dire, dal sonno. La sua splendida regina era lì, vicino a lui, che riposava serena. Finché avesse avuto lei, nessuno poteva sconfiggerlo, tantomeno un falso prete...

venerdì 9 settembre 2011

Le armi dei templari


LIBERA NOS A MALO
Quest'arma, un colosso anche tra i suoi simili, fu forgiata dai benedettini di Catanzaro. Si trattava di un prototipo non proprio ben riuscito, sicché venne lasciato da parte. Fratello Celestino, durante una missione in Calabria, nella quale divenne templare Adepto, la notò e la volle come sua arma, apportandovi qualche modifica personale (la frizione del Fifty). Terminate le modifiche funzionali, decise di farvi incidere sopra la lama e il "corpo" metallico le parole del cantico "Libera nos a malo"(da qui appunto il nome), del famoso gesuita di Correggio chiamato "Tagliabue".

AGNUS DEI
Storia assai diversa riguarda l'expiator minor di fratello Ariosto. Grazie alla sua nobile e potente famiglia, potè visionare personalmente tutti i passaggi di costruzione dello strumento di morte e apportarvi le personali modifiche. L'expiator risultò quindi un'arma ben bilanciata e adeguata al fisico del templare, a parte un piccolo difetto nella frizione che spesso fa incastrare l'arma. La caratteristica principale di Agnus Dei rimane nella sua bellezza quasi pacchiana. Decine di incisioni che riproducono i versi dell'Orlando Furioso, tassativamente in latino, ricoprono ogni centimetro dell'arma, facendola apparire più un oggetto da parata che un vero e proprio strumento di morte. Ma è la sera durante i bivacchi all'aria aperta che questo expiator diventa uno strumento di terrore, quando con fare disinvolto, fratello Ariosto ama rileggere e recitare i versi sopra incisi.

sabato 3 settembre 2011

L'ira dei Templari

Vox populi, vox Dei” è, a ben guardare, una stolta deformazione di un Santissimo passo, perché al contrario troppo spesso la saggezza apparente del volgo si allontana da quella unica e vera salvezza che è la follia della Croce. Eppure, anche nei detti c'è una stilla di verità, e “Dagli amici mi guardi Iddio, che dagli amici mi guardo io” non è un'eccezione.

Esistono uomini di Chiesa e financo Inquisitori che seguono la via dell'aberrazione e dell'eresia, e addirittura sedicenti medici dei quali dovremmo avere fiducia, ma che sembrano molto più abili nel maneggiare una pistola che una cassetta del pronto soccorso. Dio non voglia che Fratello Joaquin legga queste righe, ma nel peggiore dei casi ci nasconde qualcosa, nel migliore è un peccatore perché ha sprecato il vero talento che il Signore gli ha concesso.

Per questo, preferisco continuare io il racconto, io che sono legato al Sacro Vincolo d'Onore dei Templari (e di certo non ho nulla da nascondere visto che non ho il background, tra l'altro. NdA).

Se un uomo saggio non può non nutrire perplessità su Fratello Joaquin, certo non ci potevano essere dubbi sulle intenzioni dei cinque figuri che avevano appena fatto irruzione nella stanza dell'Aberrazione Angelica, con un fucile spianato e quattro accette minacciosamente levate, sotto la guida di Frate Cosimiro, che brandiva invece un tomo di appunti dall'aspetto blasfemo e magico. Con lui, gli excubitores locali.

E' dovere di un Servo del Signore provare a redimere i peccatori prima di ucciderli (solo in caso di necessità), così prima di seminare la distruzione con Agnus Dei tuonai parole di fuoco contro il loro peccato, ma gli scellerati continuarono la loro azione bellicosa. Io fui ferito all'ultima gamba sana da un preciso colpo di Carcano, che mi colse in uno dei pochi punti non protetti dall'armatura. Così, mentre altri fratelli pavidamente si rifugiavano dietro un tavolo per ripararsi dai colpi di arma da fuoco, io decisi di appostarmi dietro il tavolo per tendere un'imboscata al primo che si fosse avvicinato.

Con l'aiuto di Dio, il piano funzionò, e due dei violenti eretici caddero triturati da Agnus Dei, mentre anche Liberanosamalo ed il carcano di Vent-otto svolgevano il loro triste compito. Nulla, però, fu più letale delle pistole di Fratello Joaquin, il quale non solo colpì in piena fronte Frate Cosimiro e ferì alcuni dei suoi seguaci, ma riuscì anche ad interrompere la fuga di Don Gualdo che si era appropriato del misterioso tomo caduto dalle mani del defunto Cosimiro.

Certi che i rumori avessero attirato l'attenzione degli ignari cittadini, tornammo alla casa che ci era stata assegnata (non prima di aver bruciato i cadaveri): qui Fratello Joachin ci prestò le prime cure, con risultati molto inferiori rispetto all'efficacia dei proiettili sparati dalle sue pistole, e poi assecondammo la folla che veniva a chiederci sostegno.

Io, lordo di sangue, non potevo uscire subito: mentre gli altri andavano in Chiesa, pulii i miei abiti da Templare.

Fu una buona idea: meno di dieci minuti dopo li dovevo indossare nuovamente, attratto dalle urla inferocite che udivo venire dalla Chiesa, alla quale mi avviai zoppicando (a causa della scarsa efficacia delle cure del nostro sedicente medico) e pregando che Dio illuminasse i cuori di quella gente nel rispetto del mio Sacro Abito.

Alla Chiesa, la folla era in tumulto, ma fortunatamente sembrò calmarsi alla mia vista, e non pochi si genuflessero in segno di rispetto. Solo in seguito ricostruii quanto stava accadendo: i miei compagni cercavano di nascondere la strage, e Fratello Celestino aveva rischiato di far precipitare la situazione spezzando l'osso del collo a Donna Carmela, la quale stava iniziando a inveire contro i nostri gesti. Vent-otto cercava invano di calmare la folla, ma, come unico risultato, era già stato colpito da diversi oggetti.

Improvvisamente, fui illuminato: la Cappa dell'Inganno, opera del Demonio che il Cristiano deve utilizzare con grande attenzione, si stava dissolvendo nell'animo di quella gente. Essi erano pronti ad accogliere la Luce della Verità, ed era nostro compito mostrarla. Tuonai anatemi verso le aberrazioni che si erano svolte in quel paese, e come prova condussi nelle catacombe della Chiesa. Essi riconobbero i loro cari nelle membra dell'angelo, e capirono di essere stati ingannati. Anche Don Ferrino e il povero Vito erano diventati parte dell'aberrazione.

Io potei chiaramente leggere il pentimento sui loro volti: tutta la cittadinanza passò con noi una notte di preghiera in remissione di quanto era stato fatto (escluso Vent-otto, che preferì un sonno ristoratore, quasi si credesse esente dai peccati che abbruttiscono tutti gli uomini).

Ma qualcosa ci era sfuggito in quella lunga notte: la lunga mauns dell'Inquisizione era ben radicata nel paese. Qualcuno minacciò Fratello Joaquin con uno stiletto, senza che egli lo potesse riconoscere, imponendogli di rivelargli quale fosse stata la sorte del magico volume. Del resto, come ci fu rivelato in seguito da Fratello Joaquin stesso, don Gualdo portava un ciondolo dell'Inquisizione.

Forse se l'avessimo saputo avremmo potuto prevenire il disastro incombente, ma nessuno si aspettava un'azione così rapida: noi stessi non avevamo forse dovuto viaggiare per giorni per giungere ad un villaggio così lontano da Napoli?

Eppure, già il mattino seguente bussava alla porta forse il più spietato degli Inquisitori, Claudio Maria Tandrelli detto Fra Ruina, accompagnato da una ventina di quei “convertiti” che, condannati a morte per i peggiori crimini, giurano fedeltà ad un Inquisitore in cambio della vita. Con parole melliflue si complimentò con noi per il risultato ottenuto, esautorandoci di fatto e obbligandoci a lasciare il paese immediatamente. Dalle sue parole risultò chiaro che sapeva del libro blasfemo e che avrebbe voluto che glie lo consegnassimo, ma non poteva chiederlo direttamente data la parte che stava recitando.

Partimmo, convinti di aver lasciato i paesani nelle mani sbagliate. Purtroppo, non c'ingannavamo: il Maestro di Napoli, quando gli riferimmo l'esito della nostra missione, ci rivelò che l'Inquisitore aveva massacrato tutti gli abitanti di Monte Croce.

E' sempre un'amara constatazione, per un Templare, sapere che ci sono problemi che nemmeno il suo expiator può risolvere, almeno nell'immediato. Ma la partita con i corrotti della Santa Inquisizione era appena iniziata, e del resto anche fra gli Inquisitori esistono uomini pii e devoti. Fra costoro, a giudizio del nostro saggio Maestro di Napoli, si annoverava l'Inquisitore di Firenze, frate Ardizzone, presso il quale ci pregò di recarci, perché aveva richiesto l'intervento di uomini validi e fidati.

Appena procuratoci del materiale utile alla nostra causa, con il cuore grondante per la sorte degli abitanti di Monte Croce ci siamo subito diretti in viaggio verso nord, con una sola certezza a confortarci: essi avevano avuto modo di pentirsi e di chiedere perdono al Signore nella veglia di preghiera, ed Egli li avrebbe accolti nel Suo regno. Difficilmente sarebbe accaduto lo stesso per l'Inquisitore Fra Ruina, perché, almeno alle nostre deboli menti umane, era difficile prevedere che si ravvedesse.