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sabato 1 febbraio 2014

L'oro di Kartoffen

Bisognava ammettere che, data la dipartita di Kartoffen, si era liberato un posto in auto e il nuovo venuto condivideva con il crucco almeno alcuni aspetti, come la grande disponibilità al tradimento e alla diserzione, visto che, pur appartenendo fieramente (a suo dire) al corpo dei bersaglieri, si riprometteva di non tornare mai più in patria, e come l'appartenenza alla schiera dei nostri nemici nella guerra mondiale.
Baracca giurò di essere disposto a dare la vita per noi se l'avessimo preso nel gruppo (ma rifiutò ogni ipotesi di pagamento anticipato), colpì una lattina con una scarica di mitra, dimostrando insieme la sua precisione e la sua scarsa astuzia, visto che aveva consumato metà caricatore per impressionarci, asserì di conoscere bene le vie, mostrò un prezioso orologio d'oro appartenuto a suo padre, un caro ricordo che era prontissimo a barattare con un biglietto per gli USA, infine ci prese per sfinimento e (anche grazie alla corruzione a suon di tabacco operata verso Joe) accettammo di portarlo con noi.

La prima tappa fu il paese nel quale sapevamo che Kartoffen aveva occultato l'allora suo, ora nostro tesoro: non era lontano e quasi sulla via per Lisbona: ci arrivammo in poco più di un'ora.
Lo scenario era inquietante: il paese era disabitato e ridotto a macerie come molti altri nelle terre perdute, ma fra le rovine pareva annidarsi qualcosa di malvagio. Mirammo diritti alla piazza principale, nella quale si trovava la fontana sotto una lastra della quale Kartoffen aveva riposto il tesoro. Trovammo subito il nascondiglio: la botola era spalancata e lo scomparto desolatamente vuoto. Joe dichiarò che certo Kartoffen non poteva essere stato così ingenuo da non prevedere un doppio fondo, invece risultò che era stato così ingenuo. Per un attimo Joe valutò l'ipotesi di tornare al Louvre per accertarsi che la morte inflitta dal micio a crucco fosse abbastanza dolorosa, ma non avevamo tempo.
Improvvisamente, udimmo un rumore provenire dal Municipio, che si trovava proprio davanti alla fontana. Occupammo l'edificio con una rapida e brillante operazione militare: era vuoto. C'era solo una radio. L'accendemmo, e subito cominciò a gracchiare un messaggio: era una comunità di sopravvissuti che abitava in un paese lì vicino e posto proprio sulla strada per Lisbona, su una montagna, e che asseriva di avere abbondanza di armi e viveri, nonché di essere disposta ad accogliere chiunque.
In altre parole: una chiarissima esca per chissà quale trappola.
Quando, poche ore dopo, passammo in prossimità del paese dichiarato, notammo una serie di drappi rossi inerpicati per una via di montagna e che chiaramente indicavano l'itinerario per raggiungere la comunità. Ci fermammo lì giusto il tempo per fare a pezzi tre morti (due civili e un tedesco in divisa, che dal foro alla tempia pareva chiaramente essere stato giustiziato: ma che diavolo ci faceva così lontano dalle sue linee?), per perquisirli senza trovare nulla di utile e per rimirare il paesaggio mozzafiato.
Poi ripartimmo. Chissà se avevamo fatto bene a ignorare il villaggio? Facilmente erano loro ad avere il tesoro di Kartoffen, ma forse, in quanto americani, saremmo stati imbarcati senza che ci fosse richiesto il prezzo del biglietto.

E poi il Signore ha prescritto di vivere in povertà, che diamine!

lunedì 27 gennaio 2014

Un nuovo amico per il Cap. Webster

Probabilmente Kartoffen meritava la triste sorte che ha avuto. Non per le stragi e le persecuzioni perpetrate nella sua militanza nelle file tedesche, forse, perché di quelle si era pentito (credo); non per il suo contributo alle aberrazioni create dal Reich, giacché di quello si era riscattato rivelando quanto sapeva in quel laboratorio inglese; sicuramente, però, per il solo peccato che non conosce redenzione: rinnegare il vero Dio.
Io provai a richiamarlo alla realtà, a ricordargli la vera fede per mezzo della radio con cui comunicavamo con lui tenendoci, a distanza di sicurezza, fuori dal Louvre: nemmeno il mio ammonimento ebbe effetto alcuno. Ebbene, che rimanesse con quel demone felino che adorava in veste quasi divina, e che andava divorandogli un dito dopo l'altro, mentre Kartoffen si compiaceva, come avviene a tutti coloro che si votano a Satana e nel piacere perdono l'anima e il corpo.
A dire il vero, forse per un attimo il nostro crucco ebbe un barlume di lucidità, perché udimmo un “Ahia!”, e intravedemmo i Reichguard chiudersi su di lui, e trascinarlo nelle cantine del Louvre. Joe decise che quella non era una morte degna del nostro compagno, e ratto come la folgore gettò nella sala principale del palazzo, vicino alle guardie, un palla di potentissimo esplosivo al plastico, capace forse di spazzare via morti e vivi. Disgraziatamente, si rese tosto conto di aver tralasciato un particolare: come innescare l'esplosivo?
I mostri si allontanarono fra le tenebre degli scantinati in tutta tranquillità.

Non appena essi furno scomparsi, io decisi, solo ed audace (e forse financo un tantino idiota) di penetrare nel museo e verificare lo stato di conservazione dei gioielli della corona che un tempo vi erano custoditi. Entrai nell'edificio, mentre in lontananza si udiva uno strano suono di tromba. L'ingresso era vuoto, così, cauto e silenzioso, mi diressi verso l'ala che mi interessava: qualcuno l'aveva saccheggiata! Non era rimasto nulla dei preziosi! Dal Giorno del Giudizio la civiltà aveva smesso di esistere sulla terra, era tramontato ogni rispetto per la cultura.
Indignato, mi calai da una finestra, per evitare di dover passare di nuovo davanti all'ingresso degli scantinati, che mi incutevano un certo timore.

Tornato dai compagni, li trovai intenti a dialogare con uno strano personaggio: era un italiano, affermava di chiamarsi Baracca e veniva dal Sanctum Imperium con la tromba e con un messaggio per i partigiani francesi, ma si dichiarava amante degli Stati Uniti. Si esprimeva in un inglese buffo, quasi incomprensibile, ma ci fece chiaramente capire che ci implorava di poter venire con noi a Lisbona, e poi negli Stati Uniti (Paese con il quale argomentava di avere affinità in quanto nato a Filadelfia in Sicilia). Il nostro Comandante, giustamente, nicchiava: perché il nuovo venuto intendesse, al di là delle incomprensioni linguistiche, il suo scetticismo sul farlo venire con noi, il Capitano cominciò con lo sparargli qualche colpo fra le gambe, ordinò a me di arrostirgli qualche capello con il lanciafiamme e a Joe di fargli saltare via il cappello. Invano: l'ostinato personaggio continuò a tediarci con le sue richieste per tutto l'itinerario verso il rifugio dei partigiani.
Qui giunti facemmo rapporto, senza omettere nulla (erano stati tra l'altro i partigiani stessi a saccheggiare avidamente il Louvre per finanziare le loro attività: pare che avessero perfino resituito la Gioconda agli italiani in cambio di sostegno logistico), e meritammo così la nostra Jeep, che si rivelò essere una sorta di autoblindo leggero francese giallo e rosso (rossa con capottina gialla

lunedì 20 gennaio 2014

Il segreto del Louvre

Oh follia e vanagloria degli uomini! Il palazzo del Louvre, già simbolo di sfarzo e potere terreno, si stagliava davanti a noi, fortemente danneggiato dai bombardamenti, perché i superbi saranno umiliati e gli umili esaltati! L'antica reggia versava in uno stato così pessimo che era impossibile stabilire a prima vista se l'ala dei Fiamminghi del Cinquecento sarebbe stata accessibile, per non parlare della Gioconda, per ammirare la quale avevamo addirittura portato un taglierino.
L'edificio sembrava deserto, anche se sapevamo benissimo che non lo era, e udimmo anzi un inquietante suono simile ad un miagolio. Tutti si chiesero cosa potesse essere: io ipotizzai che potesse trattarsi di un gatto, ma la mia idea fu rigettata come fantasiosa.
Si riaccese una discussione: da dove entrare? Kartoffen sconsigliava l'entrata principale: “Potremmo usare una presa d'aria”, suggeriva l'accorto stratega. Il Capitano, ancora più accorto, gli fece notare che palazzo grande non significa prese d'aria in proporzione, e che del resto Kartoffen si era dimostrato troppo grosso per entrare in un carro armato, figuriamoci in una presa d'aria.
Di fatto, i francesi si erano dimostrati abbastanza furbi da non usare per accumulare inestimabili tesori d'arte un palazzo con prese d'aria abbastanza grandi da far passare un uomo, così entrammo dalla porta principale, dopo aver schierato l'intera truppa dei disertori tedeschi nascosti nei dintorni e pronti a coprire col fuoco un'eventuale ritirata. Solo il sergente venne con noi.

Superammo senza problemi (e senza pagare) la biglietteria, e appena entrati nell'atrio notammo che le vie d'accesso al piano superiore erano bloccate dalle macerie. Stavamo valutando se optare per l'ala dei reperti mesopotamici o per quella dei gioielli (con una netta inclinazione per questi ultimi), quando Kartoffen stupì tutti inginocchiandosi e cominciando a omaggiare un certo “Imperatore”, implorandolo di mostrarsi.
A dire il vero, per il momento si rivelò solo uno di quei cadaveri nazisti, che fulmineo uscì dall'ombra e ferì Kartoffen alla spalla. L'avrebbe senza dubbio massacrato, ma il nostro crucco biascicò alcune parole, ed il mostro di fermò, come raggelato. A fatica, Kartoffen si sottrasse al fatale abbraccio, solo per offrirsi alle nostre inquisizioni: dovette rivelare che sapeva cos'erano quei mostri, perché aveva partecipato alle prime fasi della loro progettazione. Erano i Reichward, macchine da guerra potentissime, ma per fortuna conosceva un ordine per fermarli. A suo dire, non aveva ordini per comandarli né poteva rivelarci quello di stop, perché di sicuro l'avremmo pronunciato male. Del resto, quei Reichward in particolare parevano essere soggetti a qualcosa di tremendo, visto come era stato tardo il mostro ad ubbidire.
Joe stava già studiando un carretto a trazione Reichward, data la rapidità del mostro, quando si sentì un nuovo miagolio, ed il cadavere modificato fuggì nelle profondità del museo. Pochi istanti dopo, dalle tenebre uscirono ben diciannove Reichward, che si suddivisero in due ali attorno a noi, lasciando fortunatamente libera la porta.
Non parevano minacciosi, ma Kartoffen ci gridò di inginocchiarci: arrivava l'Imperatore. Ubbidimmo, ed ecco comparire...un gatto! Un gatto che emetteva (pensate un po') dei miagolii, e che aveva sembianze poco europee. Non sembrava pericoloso, anzi si avvicinò a noi, e più precisamente a Kartoffen, il quale continuava ad omaggiarlo come Imperatore. Per non essere da meno, mentre mi prostravo provai a rivolgermi a lui come a Bastet, ma sembrava interessato solo al crucco.
I miei impavidi compari cominciarono a praticare una notevole forma sportiva, che consisteva nel quasi impercettibile movimento di ginocchia e di piedi che permetteva di arretrare verso la porta d'uscita quasi senza cambiare posizione. Solo io rimanevo al fianco di Kartoffen, di fronte al misterioso felino.
Se avevamo immaginato che il nostro buon Otto Kartoffen avesse un piano, oltre a gridare per invocare il Signore del Louvre per richiamarlo davanti a noi, sbagliavamo: sembrava capace solo di ripetere atti di sottomissione all'illustre Imperatore. Improvvisamente, però, cambiò strategia, passando da “Illustre signore” a “bel micino”, allungando la mano per accarezzarlo. Il gatto non si dimostrò infastidito, anzi parve gradire, solo che...staccò con un morso l'indice destro del nostro, mettendosi poi placidamente a mangiarlo, facendo le fusa.
Anche io cominciai a praticare lo stesso esercizio dei miei compagni, iniziando il mio moto immobile verso la porta. La bestiola sembrava intanto gradire il dito di tedesco, così prese anche l'anulare. Kartoffen ne sembrava felice.

Intanto, io avevo raggiunto gli altri sulla soglia del museo, e con un balzo avremmo potuto essere fuori. La missione era stata portata a buon termine: avevamo scoperto cosa si nascondeva al Louvre, avremmo potuto andarcene e incassare la Jeep. Ma che sarebbe stato del nostro amico amante dei felini? E i maestri fiamminghi del Cinquecento? Il Capitano, con la consueta autorevolezza, allora proclamò: “Nessuno del mio gruppo resta indietro. Però è anche vero che Kartoffen non è mai stato veramente parte del gruppo”.

sabato 11 gennaio 2014

Anche Kartoffen può servire

La vita, così sconvolta dopo l'Apocalisse, non manca mai di fornire motivi di meraviglia: forse per questo il Nostro Signore ci ha vietato di uccidere il prossimo. Io, ad esempio, non mi sarei mai e poi mai aspettato di essere d'accordo con Kartoffen e di avvalermi del suo appoggio per un'opera di giustizia. Dunque, è stato bene non ucciderlo (ancora).

Nonostante il coraggio che contraddistingue i membri del nostro gruppo e la tentazione di avere un mezzo capace di portarci a Lisbona su quattro ruote, andare al Louvre e scoprire cosa aveva richiamato gli inarrestabili mostri nazisti non era questione da prendere alla leggera. Il Capitano, in particolare, argomentava che sarebbe stato più prudente “andare a Lisbona a piedi che visitare il Louvre”, osservando per inciso che “ci potrebbero pure andare loro, al Louvre, se sono così curiosi” (come se non fossero da compatire per il poco coraggio che il Signore aveva loro donato, invece di condannarli); il Pagano gli dava corda, mentre Joe nicchiava, sostenendo tra l'altro che “il Fato crudele (anche noto come “il Master” NdR) ci toglierà di certo la Jeep entro pochi chilometri da Parigi”.
Solo io ed il crucco sembravamo decisi ad accettare la proposta dei partigiani parigini. Eppure, l'opportunità di andare al Louvre era evidente:
-        senza un mezzo a motore non saremmo mai arrivati a Lisbona prima della partenza del transatlantico;
-        la guerra ai nazisti non era mai stata dichiarata conclusa, ed era nostro dovere militare aiutare i partigiani a combatterli;
-        si trattava di una straordinaria occasione di arricchimento culturale;
-        avremmo potuto visitare le sale dei fiamminghi del Cinquecento.
Alcuni sostenevano che fosse meglio arrivare a Lisbona vivi ma in tempo, sicché alla fine dichiarai che, trattandosi di una nobile missione, se fossimo morti compiendola le porte del Paradiso sarebbero state aperte per noi.
Dopo una simile, solenne dichiarazione, io e Kartoffen ci mostrammo decisi ad andare al Louvre anche da soli; Joe si dispose a seguirci dopo aver contrattato con i partigiani un aumento della paga, ottenendo armi, munizioni e anche un nuovo bazooka; il Capitano si rassegnò a seguirci, comprendendo che il gruppo aveva democraticamente scelto e che, oramai, non eravamo più un drappello militare ma una squadra di commilitoni che collaboravano per salvarsi. O, forse, “per salvare il culo a degli idioti”.
Così, più o meno concordi, ci avviammo verso il Louvre, in compagnia di un altro crucco che militava oramai da anni fra i partigiani e da un drappello di ex commilitoni che avevano del pari disertato. La camminata fra le macerie di Parigi – lato francese (mentre oltre il muro che delimitava la zona tedesca la situazione sembrava decisamente migliore) fu resa meno monotona dal massacro di un paio di simplex già partigiani e da allegri cori in onore di Otto von Skorzery, oramai assunto a simbolo ed emblema di tutti i tedeschi disertori “per idealità” e per questo esaltato dallo sparuto drappello quasi con lo stessa forza con la quale il resto dei compatrioti avrebbero voluto averlo fra le mani.
Fu una faticaccia tenere a freno il nostro Otto Kartoffen dal rivelarsi.

Infine, intravedemmo quel che restava dello splendido palazzo del Louvre.

sabato 14 dicembre 2013

Il segreto del Louvre

Soli sulla deserta spiaggia di Le Havre, discutemmo brevemente sulla strada da seguire. Il ritorno in Inghilterra era precluso dalla pesca miracolosa di Kartoffen, così come un disperato inseguimento del transatlantico: non si intravedeva alcuna barca in grado di prendere il mare. Qualcuno accarezzò anche l'idea di percorrere il nord della Francia alla ricerca di un'imbarcazione per tentare la traversata oceanica con mezzi propri, ma – anche ammesso di trovare qualcosa e di voler correre il forte rischio – non avremmo mai trovato abbastanza carburante.
Decidemmo così di avviarci a Lisbona, non senza passare prima dalla vicina Parigi per recuperare l'oro di Kartoffen e, possibilmente, un mezzo di trasporto: nessuno di noi era un genio in geografia, ma sappiamo tutti che l'Europa è grande come il Texas e che Lisbona è al capo opposto, rispetto a Parigi.
Ci avviammo a piedi: gli Angeli avevano detto che la città era a due passi, e infatti molto presto ci trovammo fra le rovine della periferia. Ancora qualche istante, e udimmo una voce da dentro un rudere intimare di identificarci. Dalla parlata francese, indovinammo che si trattava di partigiani, così dicemmo di essere soldati americani. Deponemmo le armi, e subito un drappello di tre individui si fece avanti. Eravamo fortunati: si trattava di giovanetti imberbi, era probabile che non avessero mai sentito parlare di Otto, e infatti non lo riconobbero. Furono, anzi, molto gentili: conosciuta la nostra meta, il capo ci offrì anzi ospitalità per la notte nel loro rifugio segreto.
Mentre discorrevamo, il Pagano e Kartoffen ebbero l'intuizione di una bestia umanoide che si celava nell'oscurità di qualche casa diroccata e ci spiava. Era possibile, come ci confermarono i partigiani: si doveva trattare del Divoratore, probabilmente un esperimento nazista che ogni notte minacciava le loro vite.

Seguendo un paio di partigiani assegnatici come guide, raggiungemmo in breve tempo una galleria della metropolitana che era stata adattata a rifugio di alcune delle brigate della resistenza francese, quanto meno della Liberté, della Egalité, della Fraternité e della Marat (poco fantasiosi e poco religiosi, questi giacobini), e forse anche altre di cui non incontrammo membri.
Dopo aver superato qualche posto di blocco urlando insulti ai crucchi come parola d'ordine (incluso un pittoresco vituperio ai danni di Otto von Skorzery, che si era imbrattato ad arte il volto) e subito un rimprovero a distanza a carico del capo partigiano che ci aveva lasciato entrare con troppi pochi controlli, ci fu permesso di accucciarci in un anfratto coperto di paglia per la notte. 
Non era certo un posto tranquillo, anche se non capivo il francese so che nella notte fui svegliato: a quanto intendemmo, anche e sopratutto grazie all'interpretazione di Kartoffen che nel suo passato da spia aveva sviluppato un notevole poliglottismo, il Divoratore aveva colpito ancora, e proprio il caposquadra che ci aveva ammesso al rifugio era sparito.

Dormimmo in modo agitato. Fummo svegliati da una delegazione di capi partigiani con un'offerta molto interessante: aiuto in una missione in cambio di un mezzo a raggiungere Lisbona. Eravamo molto interessati, caspita!
Mesi prima, i partigiani avevano subito un disastroso attacco da parte di esseri nazisti (morti potenziati sotto il controllo umano? Mostri geneticamente modificati?) che sembravano inarrestabili e stavano causando disastri, quando d'improvviso si era udito un urlo provanire dal Louvre. Tutti gli esseri si erano diretti, come rispondendo ad un richiamo, verso l'antico museo (che si trovava nella parte della città controllata dai francesi), vi erano entrati, e da allora non si era più saputo nulla di loro. Solo uno non aveva raggiunto il Louvre, cadendo in una trappola, ed era stato ucciso non senza difficoltà.
Ora, la domanda era: chi – o cosa – si nascondeva nel Louvre? Nessuno dei partigiani, salvo un rinnegato tedesco, aveva il coraggio di andare a scoprirlo.
Servivano degli eroi, o dei pazzi.


lunedì 9 dicembre 2013

Incontro o r-incontro!!!



Gli Angeli! No, di più, gli Arcangeli!

Essi sono tornati fra noi, nuovamente mi hanno illuminato con la propria presenza, dopo che già mi avevano sollevato dal fango e indicato la retta via del Signore, mentre ero immerso nel peccato!

Essi ci attendevano. Sbarcati a Le Havre nel modo poco ortodosso di cui ho già parlato [Kartoffen aveva pescato una bomba affondando il peschereccio], trovammo solo una spiaggia deserta. Strano, ci saremmo attesi una folla desiderosa di rientrare in America, invece non c'era nessuno. Poi, comparvero Loro: Michele, Gabriele e Raffaele! Si diressero verso di noi, e non appena riconobbi le loro umane sembianze mi gettai ai loro piedi, devotamente elogioandoli.
Con l'umiltà che li caratterizza, si schernirono, non accettando l'esaltazione. I miei compagni erano perlessi: non capivano la loro altissima autorità, e quasi pareva loro che la mia dignità di Reverendo fosse sminuita perché l'investitura non era avvenuta da parte della Chiesa, ma da ben più eccelsa Autorità.

Essi ci hanno indicato la via. Mentre con il solo tocco delle mani (e con un kit di pronto soccorso) curavano le piaghe di Kartoffen, ci posero alcune domande, e ci rivelarono che un altro transatlantico era in partenza per Lisbona. Mi chiesero anche se sapevo con chi mi stavo accompagnando, ma compresero bene che solo con noi c'era per lui speranza di redenzione, e il buon pastore non abbandona la pecorella smarrita, nemmeno se si tratta di un crucco feroce.

Infine, Essi si sono allontanati, lasciandoci sulla spiaggia con il nostro libero arbitrio.
Ma so che li rivedremo.

giovedì 28 novembre 2013

Il comandante Kartoffen



In quel mentre, sentimmo bussare alla porta. Joe, spostò il mobile, ripose la sedia, rimosse il capello, aprì la porta: era Lisa. La fanciulla entrò, poi Joe incollò un capello fra stipite e porta, appoggiò la sedia, spostò il mobiletto. Lisa veniva a salutarci: non sentendosi accettata, aveva deciso di restare lì ancora per qualche giorno, per poi spostarsi autonomamente in Francia, quando oramai noi saremmo già stati sul transatlantico, in viaggio verso casa. Ci salutò con calore (salvo Joe e Kartoffen, che fu del tutto ignorato). Accolse anche la mia gentile offerta di essere confessata, sicché io ora so chi fra lei e Joe aveva mosso le avances, ma non posso rivelarlo perché è coperto da segreto professionale (o confessionale che dir si voglia). Certo, era la spiegazione che qualsiasi essere di buon senso avrebbe dovuto raggiungere da sé.
Lisa non passò nemmeno la notte con noi. Joe spostò il mobile, ripose la sedia, rimosse il capello, fece uscire Lisa, poi incollò un capello fra stipite e porta, appoggiò la sedia, spostò il mobiletto.

Dormimmo un paio d'ore, e la mattina ripartimmo, con la sola Jeep, verso Brighton, dove si diceva fossero rimaste molte delle barche in disarmo dai tempi della guerra. Vi arrivammo senza intoppi, e  non faticammo molto a trovare un peschereccio in condizioni non troppo disastrose, in grado di prendere il mare con pochi accorgimenti. Eravamo quasi pronti quando il Pagano cominciò a mostrare segni di inquietudine, e in effetti, poco dopo, comparve in fondo alla strada la figura funesta di Skinner, il morto forse diabolicus che avevamo visto a capo di una schiera di morti intento a saccheggiare città! Il varo del nostro peschereccio fu eseguito a rapidità da record, ed eravamo già in mare quando Skinner giunse al molo, e ci guardò sibilando che ci saremmo rivisti. Era comunque chiaro che, se avesse voluto, avrebbe potuto prenderci.

La notte ed il viaggio procedettero quasi tranquilli, salvo un paio di aspetti inquietanti. A metà notte, passò non lontano da noi una figura immensa, che non faticammo a riconoscere con un sommergibile tedesco. Per fortuna ci ignorò, ma non era consolante pensare che ci saremmo imbarcati su un transatlantico statunitense con sommergibili tedeschi in giro. L'aspetto più pericoloso era, però, la presenza di Kartoffen a bordo.
Dormimmo, ma il risveglio la mattina non fu piacevole: una tremenda esplosione distrusse la barca. Solo io, grazie alla protezione del Signore, e il Pagano, grazie alla buona sorte, raggiungemmo indenni la riva non lontana, mentre gli altri persero gran parte dell'equipaggiamento in mare. Tutti, però, sopravvivemmo: che era successo? Eravamo stati attaccati?
No. Semplicemente, Kartoffen, all'ultimo turno, aveva pensato che avremmo gradito una colazione di pesce e aveva gettato le reti nelle minatissime acque davanti al porto di Le Havre. Aveva pescato una bomba.


domenica 24 novembre 2013

Pignolerie



Un'altra notte insonne. E non dico insonne per osannare il Signore, come sarebbe pure giusto e comprensibile, ma per discutere fra umani: nemmeno la consapevolezza di trovarsi fra mura amiche ci poté regalare il riposo dei giusti – forse perché alcuni fra noi giusti non sono.
Quando ci fu assegnata una camerata tutta per noi, con i due custodi di Kartoffen davanti alla porta, io avevo sperato nel riposo, ma non tutti condividevano la mia stessa fiducia. Gli iniqui temono l'iniquità.
Joe approntò un ragguardevole dispositivo di sicurezza (o meglio di paranoia): incollò un capello fra stipite e porta per verificare che nessuno l'aprisse e richiudesse a sua insaputa, appoggiò una sedia al legno della porta per essere svegliato dal rumore di chi fosse entrato e un mobile per rendere più difficoltosa l'apertura. Non appena ebbe finito, Kartoffen gli chiese di parlare con lui in privato.
Joe spostò il mobile, ripose la sedia, rimosse il capello e uscì con il crucco. Noi eravamo alquanto irritati da un simile contegno di segretezza, anche perché la nostra fiducia era oramai limitata. Dopo molti minuti rientrarono: Joe incollò un capello fra stipite e porta, appoggiò la sedia, spostò il mobiletto. Allora il Capitano pretese quanto avevamo concordato: che Joe e Kartoffen ci raccontassero separatamente cosa si erano detti. Per primo volemmo sentire Joe, che così  spostò il mobile, ripose la sedia, rimosse il capello, fece uscire Kartoffen (e su richiesta di questi anche Lisa) e poi incollò un capello fra stipite e porta, appoggiò la sedia, spostò il mobiletto.
Ci raccontò che Kartoffen gli aveva chiesto appoggio, rivelando che aveva grandi ricchezze in oro nascoste in Francia, con le quali avrebbe potuto pagarci il biglietto verso gli Stati Uniti; avevano poi parlato dei morti; infine, gli aveva chiesto del litigio con Lisa, e lui gli aveva risposto che lei gli aveva fatto delle avances, ma lui aveva rifiutato.
Nessuno di noi prestava veramente fiducia a quanto diceva; specialmente il rifiuto alle avances di Lisa (la cui immagine femminile era bene impressa nella mente di ciascuno) pareva davvero inverosimile, salvo le ipotesi di omosessualità. Io non potei fare a meno di rimarcare come questo fosse peccato. Joe provò a discolparsi alludendo ad una probabile difficoltà nell'igiene intima, ma nessuno gli diede veramente credito. Joe ci nascondeva qualcosa.
Il Capitano, invece, confermò la questione delle ricchezze nascoste: lui stesso ne era a conoscenza da tempo, da quando aveva accolto fra noi il crucco, e da tempo sapeva anche la sua vera identità, ma asserì di aver tenuto tutto nascosto per tenere coeso il gruppo e perché contava di poter usare gli ori del nazista.
Facemmo entrare Kartoffen.
Joe spostò il mobile, ripose la sedia, rimosse il capello, fece entrare Kartoffen e poi incollò un capello fra stipite e porta, appoggiò la sedia, spostò il mobile. Lo mettemmo spalle al muro perché non potesse comunicare con il suo sospetto interlocutore. La versione di Kartoffen fu considerevolmente diversa: certo, ammise di aver parlato di morti, ma questo era il meno. Tanto per cominciare, secondo lui era stato Joe a provarci con Lisa, e non viceversa (e qui la versione pareva più affidabile), in secondo luogo non citò le ricchezze. Solo al confronto bofonchiò che chi si era fatto avanti, fra Joe e Lisa, era un particolare irrilevante, e dovette ammettere la questione del suo tesoro, assicurandoci però che l'avrebbe diviso con noi, e che anzi era sua intenzione sin dall'inizio.
Decidemmo di tenerli fra noi, ma chiedemmo se qualcuno avesse qualcosa da nascondere.
Il Pagano sostenne di avere talora delle sensazioni su fatti che avrebbero avuto conseguenze nefaste, ma non disse nulla circa l'essere a volte posseduto dal Demonio.
Io, per conto mio, dissi che avevo ricevuto il  sacerdozio da un'Autorità ben più alta di quella ecclesiastica. Qui devo dire che ricevetti accuse infamanti.
Kartoffen, alle mie critiche e alla mia ipotesi che il Giudizio fosse arrivato, mi accusò di non sapere nulla della morte e della vita oltre la morte. Lui, lui che non aveva nemmeno letto l'intera Bibbia! Fremetti d'indignazione, e gli promisi di leggergli tutte le Sacre Scritture. Non osò ribattere, sconvolto da tanta Verità.

mercoledì 20 novembre 2013

La Dottoressa (Papessa) alle grandi manovre...



Quasi appena arrivati, avemmo l'onore di conoscere la dottoressa Diana Selftidge: una donna sui quarant'anni decisamente avvenente, che stava conducendo studi sui morti. Ma i primi scambi di vedute non furono sui morti, bensì su Kartoffen. La reazione dei più autorevoli dei nostri ospiti, nel vederlo, fu simile a quella che aveva avuto Liza: estrema durezza. Anche loro avevano non solo intuito che non era chi diceva di essere, ma anche riconosciuto la sua vera identità. Kartoffen provò a tergiversare, ma niente meno che Otto Skorzery, uno dei più noti ufficiali delle SS, la mente dietro la liberazione di Mussolini, colui che quasi era riuscito ad effettuare un attentato ai danni di Churchill, Stalin e Truman a Teheran! Sapevamo che ci nascondeva qualcosa, ma non immaginavamo tanto!
I nostri ospiti incalzarono il traditore tedesco con domande: in particolare, non riuscivano a capire cosa lo avesse spinto a lasciare la Germania, visto che là avrebbe potuto avere una posizione di grande prestigio. Kartoffen rispondeva, semplicemente, che non voleva servire i morti. Strano, visto che, come ci fu rivelato, aveva guidato il team nazista che aveva compiuto le prime sperimentazioni genetiche sui morti condotte dal Reich per creare mostruosi esseri al suo servizio, compresa una serie di cloni supersoldati (uno dei quali era il vecchio pazzo che aveva scoperto al castello).
Io pensai che era certo un uomo malvagio, ma se il Signore l'aveva posto sulla nostra strada, era senza dubbio per un motivo valido. Voleva che io lo redimessi? Era possibile. Inoltre, forse voleva che le conoscenze dei tedeschi fossero rese note, tramite lui, a questi inglesi che stavano cercando una cura per l'epidemia. Così, con il consenso del Comandante e degli altri membri del gruppo, ottenemmo che la vita di Otto Kartoffen fosse risparmiata: avrebbe rivelato le sue conoscenze sui morti, e noi lo avremmo portato via con noi.
Comunque, gli furono assegnate due guardie, con il compito di non perderlo di vista durante tutta la sua permanenza del centro – le armi, del resto, ci erano già state requisite all'ingresso, secondo una consolidata prassi di sicurezza resa necessaria dopo che degli appartenenti ad un gruppo nemico (blasfemo come gli uomini continuino a volersi del male anche in una situazione di comune disgrazia e in spregio agli insegnamenti del Cristo!) si erano introdotti nella fortezza fingendosi bisognosi d'aiuto, arrecandovi numerosi danni.
La sera e la notte procedettero senza particolari intoppi. A cena, Kartoffen cominciò a discutere con la dottoressa (ma presto fu raggiunto da me e dal pagano, che non volevamo perderci informazioni sui morti), la quale era isolata e malvista dopo che la cattura dei due morti che stava analizzando era costata la vita a otto degli abitanti della fortezza. Il Capitano, invece, fece conoscenza con due americani come noi, che però oramai si sentivano di casa a Londra. Alla sera, Liza volle che vicino a lei non si sdraiasse Joe, ma qualcun altro: il Pagano fu lesto a cogliere l'invito.

La mattina seguente fummo introdotti nel laboratorio, dove due morti erano legati: una donna orrenda e sbavante, senza un braccio, legata al muro da quattro catene che cercava di staccare invano, e un altro crocefisso alla parete. Erano i soggetti degli studi della dottoressa, sino ad allora vani. Ma c'era qualcuno più eccezionale di loro: il dottor Pelegatti, il celeberrimo autore del Sine Requie! Egli aveva incontrato un gran numero di morti, compreso un Diabolicus in Spagna, che lo aveva contattato perché era stato raggiunto dalla sua fama. Chiedemmo ed ottenemmo di assistere all'incontro fra tre dei massimi conoscitori dei morti: il dottor Pelegatti (massimo esperto del Sanctum Imperium, dal quale era stato tuttavia esiliato perché il Papa – ecco l'antico oscurantismo cattolico! - aveva decretato che tutti i morti fossero uguali e non senzienti); Otto Kartoffen (depositario di molte conoscenze del Reich); la dottoressa Diana Selftidge (forse la miglior studiosa delle Terre Perdute).
Non avevamo che da apprendere, e forse l'umanità avrebbe avuto grandi vantaggi da questo incontro.

sabato 16 novembre 2013

Visita ai Four Ravens



Il viaggio alla volta di quel che resta di Londra, lasciato il castello dei sopravvissuti “appesantiti” di qualche utilissimo litro di carburante, procedette sotto la benevolenza del Signore, che non frappose ulteriori malignità da debellare.
Solo quando le rovine delle case si fecero più fitte, il Capitano ordinò maggiore prudenza, e rallentammo il procedere degli automezzi. Del resto, le strade erano sempre più sconnesse e ingombre di ostacoli, parte di quella natura che è facile attribuire alla semplice incuria, parte che (non poteva sfuggire all'occhio attento di un gruppo di veterani) erano stati senza dubbio posti ad arte, in modo da rallentare la corsa di visitatori indesiderati. Tutto, dunque, lasciava supporre che la zona fosse presidiata da umani, nella migliore delle ipotesi, da morti senzienti nella peggiore. Purtroppo, non c'era altra via verso la nostra meta.
Ad un certo punto, trovammo addirittura un carro armato, uno Sherman visibilmente in disuso – aveva perfino un cingolo staccato – che però volemmo egualmente ispezionare. Il Capitano mandò avanti il nostro carrista di fiducia, il disertore Kartoffen. Circostanza singolare per qualcuno che asseriva di essere stato un carrista, la sua stazza gli permetteva a stento di inserire la testa nella carlinga: di far passare le spalle non c'era modo. In effetti, era evidente che non avremmo trovato nulla, ma il Capitano aveva ordinato la missione per rendere chiaro che nessuno, oramai, credeva che Kartoffen fosse veramente chi asseriva di essere.

Procedemmo ancora un poco e, come previsto, ci trovammo circondati da un gruppo di militari con divisa inglese. Non sembravano avere cattive intenzione, così deponemmo le armi di buon grado. Solo in quel momento ci rendemmo conto che Joe e Liza erano spariti. Il Capitano chiese ed ottenne di cercarli, prima di raggiungere me e Kartoffen al rifugio dei sopravvissuti che avevamo incontrato. Arrivarono al centro poco dopo di noi, con Joe e Liza fra i quali doveva essere accaduto qualcosa di spiacevole, perché i cinguettii dei giorni precedenti avevano lasciato il luogo a musi lunghi. I più maliziosi ipotizzarono che lei avesse avuto una spiacevole sorpresa nel momento in cui si era trovata sola con lui, ma le spiegazioni plausibili erano molte.
Il centro nel quale ci trovavamo, che ospitava un centinaio di sopravvissuti, era una vera e propria fortezza, mirabilmente organizzata e splendidamente difendibile, al cui interno si trovavano orti, piccoli allevamenti, un refettorio, cucine, camerate...e laboratori.
Già, laboratori.

martedì 5 novembre 2013

Il segreto nelle segrete...



La scena che trovammo nelle segrete era orribile: le pareti erano tappezzate di simboli nazisti, per terra era tracciato con il gesso un simbolo esoterico al cui centro era legato il cadavere della prima bambina scomparsa nel castello, smembrata e ricucita con il filo di ferro. In quella sorta di tempio pagano erano presenti anche tre libri, probabilmente blasfemi anche se non ne intendevo il significato. Uno, in particolare, aveva pagine alternativamente bianche e nere: Kartoffen cominciò a trafficarvi, poi di colpo impietrì. Non so perché, ma il Pagano cominciò a vibrare di rabbia, quasi come quando aveva attaccato l’Atrox, ma si trattenne a stento dallo scannare il compare tedesco. Il Capitano fu pronto a strappare il libro dalle mani di Kartoffen, il quale poco dopo si riprese dalla trance, dichiarando di conoscere il colpevole di tutto.
A suo avviso si trattava del vecchio pazzo con il quale aveva conversato nel pomeriggio: la prova di quanto diceva avrebbe dovuto essere un numero tatuato sul petto del vecchio (cosa ciò provasse mi è ad oggi ignoto). Le guardie della comunità che ci avevano seguito non lo credevano, reputandolo un pazzo innocuo, ma accettarono di porgli qualche domanda: salimmo dunque ai dormitori, mentre il solo Joe restava a presidiare il sotterraneo.
Arrivammo al dormitorio ed il pazzo era lì, mentre nessuno mostrò di essersi accorto di una sua possibile precedente assenza. Alle prime domande di Kartoffen, il tizio ebbe una risposta inattesa: dichiarò “Io so chi sei tu”, e si dispiegò in tutta la sua altezza, che era davvero ragguardevole: ora non sembrava che un lontano parente del pazzo raggrinzito che avevamo visto in cortile. Gridò ancora di sapere chi fosse Kartoffen (avrebbe pure potuto avere il garbo di rivelarlo anche a noi) e provò a darsi alla macchia, ma non prima di aver sganciato una bomba a mano nel dormitorio. Per fortuna Kartoffen e il Pagano furono lesti, il primo a gettare l'ordigno fuori dalla finestra, il secondo a colpire con un preciso lancio di tomahawk la gamba del pazzo, il quale, ferito, rovinò giù da una finestra, verso l'esterno del castello.
Non speravamo per nulla che la caduta potesse averlo ucciso, così uscimmo alla sua ricerca: quando arrivammo sul posto, però, trovammo solo alcune tracce di sangue, che portavano verso il muro di cinta, finendo ad un certo punto come d'incanto. Era un altro passaggio segreto! Non era stato ben richiuso, ma mentre lo percorrevamo sentimmo una raffica di colpi, sventagliate di mitragliatrice: quando sbucammo nella segreta adattata a tempio, trovammo Joe che infieriva su quello che aveva tutti i requisiti per sembrare il pazzo, pur essendo oramai irriconoscibile. Joe sosteneva che prima gli avesse offerto ricompense in cambio di aiuto e alleanza, poi l'avesse minacciato. Disarmato, non aveva speranze contro Joe, benché si mostrasse convinto di poterlo sconfiggere. Invece, ora era ridotto ad un ammasso informe di carne.

Il mattino dopo, ottenuti cinque litri di benzina quali ringraziamento per il nostro intervento, ripartimmo. Anche se fu solo grazie ad un colpo di fortuna che non saltammo tutti in aria: nel girare la chiave, Kartoffen la ruppe, e così notò che qualcuno aveva messo dell'esplosivo al plastico collegato con l'accensione.
Joe ipotizzò che qualcuno potesse avere messo l'esplosivo mentre lui era intento ad inseguire il bimbo, ossia nell'unico momento in cui non sorvegliava la Jeep. A dire il vero, il nostro misterioso avversario avrebbe potuto agire anche mentre tutti inseguivano “fantasmi” o ispezionavano segrete. Joe stesso aveva controllato (da solo) la Jeep per la maggior parte del tempo, non sempre. E comunque lui si spostava in moto, non in Jeep, insieme alla bella Lisa.

sabato 26 ottobre 2013

Il mistero del castello...



Confidando in Colui che vigila sopra la nostre teste e senza il consenso del quale non cadono dodici passeri, nonché nella buona fede dei nostri ospiti, io andai a dormire sereno nella vecchia stalla in disuso che ci era stata assegnata, ma non tutti seguirono il mio esempio, procurandoci non pochi guai. Joe, con la sua mania per la Jeep, rimase sotto una tettoia, il mezzo in vista, mentre la pioggia scrosciava tutto attorno.
Credo che anche altri siano rimasti svegli perché quando, dopo un sonno troppo breve, ancora nel cuore della notte, fui svegliato da uno sparo, ero rimasto solo nella stanza. Mi affacciai alla porta, e subito capii che tutto era sotto controllo: in caso contrario, il Capitano non sarebbe stato tranquillamente in piedi in mezzo al cortiletto. Joe aveva appena mostrato tutto il suo eroismo quasi riuscendo nell'impresa di ammazzare un pericoloso bimbo con un colpo di mitraglia: la sua versione dei fatti era di aver visto un'ombra, di averla seguita e di averle sparato (secondo la sua versione accorgendosi appena in tempo che si trattava di un bambino, più probabilmente aveveva clamorosamente sbagliato mira), per poi vedere il misterioro (e basso) individuo scoppiare in lacrime dicendo fra i singhiozzi che voleva solo vedere da vicino un soldato americano.
Prima che la situazione potesse diventare imbarazzante, dato che era sopraggiunta anche la ronda armata della comunità, un fatto inquetante prese prepotentemente la scena: si udirono delle urla femminile, una risata sgraziata, ed ecco una luce che si muoveva apparendo e scomparendo dalle finestre del piano di mezzo.
Improvvisamente, sparì.
Tutti ci precipitammo sul posto, ma sembrava che il portatore del lume fosse sparito. Tutti, tutti avemmo la stessa intuizione: girando il lampadario sul muro esterno si apriva uno stretto passaggio segreto, che costeggiava il muro. Senza por tempo in mezzo, ci slanciammo dentro, uno alla volta; tutti tranne Kartoffern, che si trascinò a fatica nel corridoio, visto che, alto e robusto com'è, ci passava appena. Facemmo appena in tempo a vedere il lume balenare lontano.
Diversi altri ingressi al passaggio si susseguivano a intervalli irregolari, e Joe ebbe quasi modo di proseguire la sua crociata contro gli infanti: aprì, infatti, una porta che a suo avviso si trovava nel punto in cui era svanito il lume e, scoperto che dava su una stanza di donne e bambini, pensò subito che i colpevoli delle sparizioni e della “maledizione” del castello fossero questi ultimi. Chi altro, del resto, avrebbe potuto passare agevolmente per quell'angusto passaggio (nel quale noi stavamo camminando tranquillamente, peraltro...).
Riuscimmo a dissuaderlo dal fare giustizia sommaria e seguimmo ancora il percorso del passaggio segreto, che si concludeva su un'ampia scalinata di collegamento interna (non seguiva dunque il muro di cinta). Proprio alla fine del passaggio, però, si trovava una stretta scala a chiocciola che scendeva verso gli scantinati: non potevamo che calarci dabbasso.

venerdì 18 ottobre 2013

L'Old Sir Jonson



La mattina dopo ripartimmo, Joe e la fanciulla davanti (e pareva davvero che costei avesse rapidamente dimenticato il fidanzato morto) in moto, noi tutti dietro con la Jeep. A metà pomeriggio arrivammo in vista di un vecchio aeroporto militare, che perquisimmo meticolosamente senza però trovare altro che una vecchia carcassa di caccia, dalla quale riuscimmo comunque a ricavare un po' di carburante. Molto più utile fu l'auto nera che passò sulla strada vicina a noi, mentre stavamo compiendo le nostre ricerca: Lise la riconobbe, era una sorta di tassì corazzato che faceva la spola fra le varie comunità di sopravvissuti dell'Inghilterra meridionale, e che già aveva aiutato lei ed il suo moroso buonanima a spostarsi dopo il loro sbarco. I due conducenti furono molto gentili; con loro trattammo in modo da ricavare benzina in cambio dei fucili trovati nella casa dei cannibali, e in più ci regalarono un paio di informazioni: evitare Canterbury, dove si trovava una sorta di abominio composto da centinaia di cadaveri, e recarsi per la notte in una vicina comunità che si era insediata in un antico castello.
Li seguimmo entrambi, e del resto Lise aveva già trascorso qualche tempo con loro: erano organizzatissimi, considerati i tempi. Al nostro arrivo ne diedero prova, sgominando con un sistema di trappole, e senza rischi, un gruppo di morti che li stava attaccando. Furono ospitali: ci accolsero fra di loro e ci offrirono di condividere il loro cibo nella mensa comune. È meraviglioso trovare ospitalità e gentilezza in una terra così desolata. Solo Joe decise di non fidarsi e di rimanere a piantonare la Jeep, sicché la tenera Lisette gli portò un piatto di zuppa.
Notammo che erano, però, tristi e malinconici (e uno, storpio, in particolare era completamente pazzo: il Pagano e Kartoffen gli parlarono a lungo, immagino senza costrutto). Ne domandammo il motivo, e scoprimmo che una maledizione gravava, a loro avviso, sul castello.
Figuriamoci: su ogni castello inglese grava una maledizione, a sentir gli abitanti! Negli anni erano scomparse alcune donne e ragazzine, in seguito ritrovate morte, forse dopo qualche rito: l'ultima era stata, per esempio, una fanciulla scomparsa e ritrovata a mesi di distanza, legata ad un comignolo e appena uccisa (non era ancora rianimata). Francamente, sembra surreale parlare di maledizione quando ci sono morti redivivi ovunque, ma la questione sembrava turbare particolarmente gli abitanti.
Impartii una benedizione, recitai una preghiera e andammo a dormire.

sabato 12 ottobre 2013

Lo scherzo di Kartoffen



Eravamo tutti molto fieri del nostro operato: non capita tutti i giorni di eliminare non tanto un gruppo di cannibali deformi (e comunque per fortuna non ce ne sono molti in giro), ma soprattutto un morto così orrendo e feroce, rimanendo magari un po' feriti, ma vivi. La ragazza che avevamo liberato, che disse di chiamarsi Lise, fu molto grata per la liberazione a tutti tranne che a uno: Kartoffen. 


Il suo ribrezzo per la divisa – ed il passato – da nazista era più forte del sollievo per la salvezza: troppe ne aveva patite dai maledetti crucchi, prima e dopo l'Apocalisse. Era infatti una partigiana francese, che da più di dieci anni combatteva per la liberazione della sua patria dai tedeschi, e, a quanto ci narrò, Parigi era ancora contesa e divisa a metà da un muro. Ci raccontò infatti notizie inaudite sul continente: la Germania era retta da una dittatura feroce, in Italia era tornato un papato di stampo controriformistico, e le due potenze erano ora rivali (al punto che l'Italia appoggiava i partigiani francesi). Nulla si sapeva dell'URSS, ma pareva che fossero i soli due Stati organizzati.
Lise era tornata in Inghilterra con il suo fidanzato (ossia il morto che avevamo trovato sulla strada non lontano dalla casa) a recuperare dei parenti e tentare di andare tutti assieme al transatlantico verso gli USA. Dato che quella era la sua meta, le offrimmo di unirsi a noi, cosa che fece di buon grado.
La sera consumammo parte del cinghiale rimasto: il Capitano aveva saggiamente deciso di sfruttare la casa per la notte. Molto meno saggiamente, Kartoffen pensò di giocarci uno scherzo nel cuore della notte, gridando l'allarme senza che nulla fosse accaduto. A dire il vero, fu Lise a dire che non era accaduto nulla, sostenendo di essere sveglia, ma siccome una bellissima ragazza è più credibile di un vecchio  nazista traditore, decidemmo tutti di fidarci di lei e, quando Kartoffen, finito il turno, si addormentò, gli giocammo il vecchio scherzo delle botte con le calze piene di pietre.

giovedì 3 ottobre 2013

Scontro con l'Atrox di nonna Amelia



Intanto, il Capitano era arrivato alla finestra, ma non fece in tempo a fare nulla: una furia, una vecchia donna oramai morta ma straordinariamente veloce lo colpì alla spalla, facendogli cadere la bomba e gettandolo al suolo. La morta avrebbe potuto finirlo, invece rientrò in casa e dopo un istante ne uscì, precipitandosi a velocità impressionante verso me e Joe. Io rimasi un istante interdetto dalla mostruosità dell'essere: un istante di troppo, perché quella cosa percorse in un amen la distanza di venti metri e mi fu addosso, assestandomi un colpo tale da spezzare di netto l'elmetto e proiettandomi contro un albero, stordito e con la testa che perdeva sangue copioso (Tiro distanza dalla morte passato alla prima estrazione, con Joe che aveva appena finito di dire:” Vediamo il tuo dio adesso”).

Che stavano facendo gli altri? Io e Joe da soli non avevamo speranza. Il Capitano aveva pensato bene di disinteressarsi alla questione e di entrare nella casa dove, come scoprimmo in seguito, finì i due moribondi da me colpiti, più un terzo individuo e si intrattenne a consolare la fanciulla prigioniera.
Il pagano, invece, dopo aver sistemato alla bell'e meglio la gamba di Kartoffen, si era appostato a venti metri da noi e, vedendoci in difficoltà, si mosse per raggiungerci. Il crucco, invece, era rimasto a fare a pezzi i due primi colpiti sul sentiero, prima che si risvegliassero, con il tomahawk che l'indiano gli aveva consegnato con mille raccomandazioni di cura. Vedendo la cosa in corpo a corpo con Joe, sentendosi incapace di raggiungerlo in tempi brevi date le ancora preoccupanti condizioni della gamba, penso bene di scagliare in nostra direzione l'ascia da guerra indiana.
Ecco che accadde l'imprevisto: il pagano si trovava sulla traiettoria, prese al volo il tomahawk, e divenne come indemoniato, gli occhi di bragia, un filo di bava dalla bocca, incapace di emettere versi più che ferini. Incuteva paura quasi quanto la cosa che ci aveva aggredito e che già aveva ferito anche Joe. L'arrivo del pagano, che mulinava furiosamente la sua ascia, cambiò la situazione: la morta era incalzata dall'indiano, dalla mia spada, dal machete di Joe, e in breve tempo perse la testa e un braccio. Ma non smetteva di attaccare, furiosa.
Aveva però colpito, insieme all'inguine di Joe, anche la borraccia nella quale era tenuta della benzina, della quale si sparse. Joe smise di colpire con il machete, e gettò il sigaro acceso sulla morta: un gran fuoco purificatore pose fine alla sua scellerata esistenza.

domenica 29 settembre 2013

Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla...



Viaggiare in Jeep è senza dubbio molto meglio che scarpinare, è meglio anche di spostarsi con la nostra vecchia Scoreggiona, ma non c'è mezzo che garantisca un percorso agevole e sicuro su queste tormentate isole britanniche. Non avevamo percorso molta strada, quando incontrammo una trappola che, per nostra fortuna, era già scattata a spese di quacun altro: un albero abbattuto da mano umana bloccava la strada.
Il Capitano ci fece segno di smontare, e subito trovammo un morto, intrappolato sotto il tronco, che potemmo smembrare senza difficoltà, ma soprattutto (assai più interessante) le tracce di una moto che uscivano dalla strada. Dove c'è una moto, c'è anche benzina, e noi eravamo già quasi in riserva. Il Capitano lasciò me e il pagano a controllare la Jeep (forse nella speranza che, rimanendo soli, io riuscissi a convertirlo), mentre egli guidò Kartoffen e Joe in avanscoperta, attraverso un bosco.


Non so bene come si sia sviluppata la missione, ma ad un certo punto sentimmo una forte esplosione, come di mina antiuomo, e decidemmo di lasciare la Jeep per correre in soccorso dei nostri compagni, forse feriti, forse in difficoltà (per sicurezza, comunque, portai con me le chiavi). Poco dopo, udimmo degli spari, delle urla di dolore.
In effetti, subito incontrammo Kartoffen gravemente ferito, con una grossa scheggia piantata nella gamba: aveva ricevuto l'ordine di venirci a chiamare in silenzio, perché il nemico sembrava pericoloso. Visto che non correva rischi immediati, io mi mossi alla volta del punto dove si trovavano il Capitano e Joe, mentre il pagano prestava a Kartoffen i primi soccorsi. Mentre mi avviavo, il crucco mi avvertì che il terreno intorno era minato: c'erano fili tesi nel sottobosco.

Il Capitano e Joe avevano già steso due individui deformi usciti dalla casa a verificare chi avesse fatto esplodere la mina: stavano ora agonizzando su una sorta di sentiero sminato. Il problema erano gli altri, arroccati in una specie di cottage. Non potevamo nemmeno distruggere tutto con qualche bomba a mano, sia perché la moto era fra noi e la casa e avrebbe potuto esplodere, disperdendo la preziosa benzina, sia perché urla udite dai miei compagni all'arrivo testimoniavano inequivocabilmente che là dentro si stava perpetrando una violenza carnale a spese di qualche povera fanciulla (che però probabilmente soleva andare in giro con abiti troppo provocanti, e avrei dovuto redarguirla a dovere). Che gli inquilini fossero malvagi era testimoniato dal grande pentolone che si trovava nel cortile, e nel quale bollivano membra umane.
Purtroppo, oltre che malvagi, erano anche armati: due fucili uscivano dalle due finestre centrali. Il Capitano ebbe un momento di eroismo: “Joe, coprimi”, ordinò seccamente, ed eccolo correre verso il lato della casa, con una bomba in pugno. Joe voleva davvero coprirlo, con la sua grande mitragliatrice, e irrideva la pistola che io avevo appena estratto.
“Se riesci a colpirli con quella, credo in Dio!”
Se c'è una cosa che la Bibbia insegna, è che non si deve provocare il Signore: la sua mitragliatrice si inceppò, mentre due colpi precisissimi partivano dalla mia arma a mano, colpendo a morte i due fucilieri alle finestre.

domenica 22 settembre 2013

Visita guidata alla Rolls Royce



I nostri ospiti di guidarono per un lungo percorso, ben difeso anche da campi minati, sino alla roccaforte della comunità: la vecchia fabbrica della Rolls Royce. Qui fummo accolti dalla leader del gruppo, una quarantenne che, nonostante i tempi duri che aveva dovuto affrontare, conservava ancora chiara traccia della sua bellezza, che si accompagnava ad un baffone. A loro riferimmo dell'incursione di insoliti morti che avevamo incontrati: le loro difese sarebbero state messe a dura prova.
L'accoglienza fu squisita: ci accolsero fra loro, ci invitarono al loro desco, ed io volli ringraziarli organizzando una Messa e pregando per tutta la durata della cena. Mi resi anche disponibile ad officiare un matrimonio fra il Baffone e una sventolona. Ci furono anche mostrate le loro linee di produzione: riadattando le vecchie macchine, creavano delle vere e proprie autoblindo preziose contro morti e vivi, benché tremendamente assetate di carburante. Le vendevano poi ad altre comunità di sopravvissuti in cambio di vettovaglie: la loro attività era preziosa per la Gran Bretagna, vissuta quasi come una missione, e infatti ci offrirono di sistemare una vecchia Jeep per il viaggio, posto che riuscissimo a trovare carburante (immagino che dovrò rinunciare ad usare il mio caro lanciafiamme).
La signora chiamò un ragazzo che si muoveva a scatti, in modo strano, ma che era un vero e proprio genio dei motori: nonostante l'aiuto di Kartoffen, in appena un paio di giorni rimise in funzione la Jeep, e potemmo ripartire alla volta di Dover. 


Vi comunico che questo week end, abbiamo avuto la fortuna nonchè l'onore di conoscere uno dei mitici autori del nostro gioco preferito (in realtà l'autore è il Leo, purtroppo noi abbiamo dovuto accontentarci del promoter), il Curte... Grazie di tutto, Matteo, ci siamo proprio divertiti!!!

P.s. Purtroppo, come al solito direi, il tirapacchi di Simone è arrivato in ritardo anche per la foto... ma si può!!


sabato 14 settembre 2013

Arrivo a Derby



Arrivammo alla periferia di Derby nelle prime ore di pomeriggio. Improvvisamente, la Scoreggiona (così avevamo amabilmente ribattezzato il trattore sottratto alla cascina disabitata dai viventi) cominciò a rantolare più del solito e si spense. La collocazione era quanto meno inquietante: ci trovavamo in una strada costeggiata da lunghe file di vecchi capannoni industriali e case operaie in parte in rovina, luoghi ricchi di potenziali nascondigli per cecchini e malintenzionati, mentre noi ci trovavamo in campo aperto, con il solo riparo della Scoreggiona e del carro che vi avevamo attaccato, nel quale mi trovavo insieme al Pagano e al Capitano. In più, ci sentivamo osservati.
Per sicurezza, alzai la croce bene in vista, in modo che eventuali malintenzionati esitassero di fronte al rischio di offendere il Signore, mentre Joe scivolava a nascondersi fra le rovine. Intanto, Kartoffen, il nostro meccanico più esperto (il che testimonia quanto siamo messi male) smontò dal posto di guida per vericare il guasto: con gesto competente, si infilò sotto il mezzo e iniziò a smanettare. Dopo poco, riemerse, dicendo che non c'era nulla da fare. Rapidamente, ma solo dopo l'intervento di Kartoffen, una vasta chiazza di benzina si sparse al suolo.
Mentre ancora stavamo indugiando, qualcuno nascosto fra gli stabilimenti ci intimò di abbandonare le armi e di alzare le mani. Kartoffen, che già si era esercitato nella nobile arte abbandonando i suoi commilitoni per venire fra noi americani, abbandonò all'istante anche gli stuzzicadenti e si prostrò al suolo, davanti allo stabilimento. Il Capitano, invece, cercò di parlamentare e di non mostrarsi remissivo sebbene, in verità, la voce non sembrasse particolarmente minacciosa. Di certo la nostra posizione era difficile: come ci faceva notare il nostro celato interlocutore, loro ci avevano sotto tiro mentre noi nemmeno sapevamo dove fossero. Il Pagano provò a bluffare sostenendo di averli individuati, ed io volli dargli man forte indicando il punto preciso dove essi si nascondevano. Disgraziatamente, indicai il nascondiglio di Joe.
Posammo le armi, fummo perquisiti ma subito gli abitanti di Derby si dimostrarono accoglienti e gentili: volevano solo sincerarsi che non facessimo parte dello Scottish Army, la banda di briganti che, ci raccontarono, stava devastando la zona. Averne uccisi un paio fu un ottimo biglietto da visita.

sabato 7 settembre 2013

Lo Scotland's Arm



Non ci sbagliavamo. Un paio di chilometri di strada più oltre, infatti, trovammo una sorta di autoblindo recante le stesse insegne che c'erano sulla moto: bandiere scozzesi. Eravamo troppo allo scoperto per nasconderci, troppo inermi per affrontarli, così bluffammo, e devo dire che i presunti banditi non solo non ci derubarono, ma furono perfino gentili, forse per il rispetto dovuto a un sacerdote quale io, indegnamente, sono. Stavano proprio cercando i tre che avevamo massacrato, e si lamentavano della loro inefficienza. Ci diedero anche alcune informazioni: a Derby, noto per la sua produzione di auto blindate (che speravamo di poter comprare), erano dei morti, dei morti senzienti a condurre la produzione. I banditi odiavano quel posto, dunque noi ci dirigemmo là: non ci avrebbero mai cercato fra i morti, anche se avessero intuito chi aveva ucciso i loro compagni.
Purtroppo, il posto era lontano, ma decidemmo egualmente di incamminarci, senza deviare per Stone on Trent, anche a costo di passare la notte all'addiaccio. In realtà, lo decise il Capitano, sulla base di una sensazione del Pagano: benché fosse priva di fondamento, il graduato si fidò. Sul momento non compresi il perché, ma quando la strada ci portò, nella notte, a passare su una collina dalla quale si poteva vedere il villaggio, notammo che esso era in fiamme e, con il binocolo del Capitano, scoprimmo che era in preda ai morti(Skinerr rulez). Uno di loro aveva un aspetto particolarmente malvagio: esso guardava verso di noi, con un cipiglio da far accapponare la pelle.
Ci allontanammo quanto più rapidamente potemmo. Non molto oltre, dopo avere ucciso un cinghiale, magistralmente scuoiato e ridotto in pezzi trasportabili da me e dal Pagano, avvistammo una cascina apparentemente disabitata, nella quale forse avremmo potuto passare la notte. Joe e  Kartoffen andarono in esplorazione, il primo con felpato passo da felino, il secondo con andatura da bufalo.
Joe ebbe allora un'idea: dividersi, così eventuali occupanti della casa avrebbero attaccato il tedesco, e lui (forse) sarebbe potuto intervenire. C'era, però, solo il cadavere di un vecchio denutrito.
La cascina era molto povera, senza cibo, ma con combustibile a sufficienza per organizzare una grigliata di cinghiale.
Dormimmo poche ore. La mattina dopo ripartimmo a bordo del vecchio trattore. Non avremmo compiuto molta strada, però: Joe, nello sparare verso il vecchio cadavere che stava aggredendo Kartoffen, aveva anche dato fuoco a tutte le sue scorte di nafta. Un grande spreco, ma il morto era andato fuori combattimento in pochi attimi.